Un ripensamento oltremodo necessario (anche da noi)

Ieri sul sito del Corriere della Sera è apparso un articolo di Federico Rampini dal titolo “La sinistra Usa ora abbandona la «woke culture»: ecco perché”. In esso Rampini parla di “una vasta rivolta dal basso contro gli eccessi, le forzature e le imposizioni di queste commissioni DEI” (Diversity Equity Inclusion), rivolta che avrebbe favorito la vittoria elettorale di Trump, e spiega che “a prendere le distanze da quelle direttive c’era anche un pezzo della sinistra americana, e una parte delle minoranze etniche”, e che anche giornali progressisti come il New York Times starebbero prendendo coscienza che “gli eccessi erano stati insopportabili”.

Rampini fa l’esempio di Gavin Newsom, governatore (democratico) della California, e argomenta: “A capo dello Stato Usa più popoloso e più ricco, roccaforte della sinistra, bacino di voti e di finanziamenti elettorali, Newsom è considerato un potenziale candidato alla Casa Bianca. Da decenni la California si distingue come un laboratorio per gli esperimenti più radicali. Perciò ha fatto scalpore il recente intervento di Newsom in un podcast, dove ha condannato la partecipazione di giovani atleti transgender, ex-maschi, nelle squadre femminili. Un cavallo di battaglia della destra è diventato anche suo. La svolta repentina di Newsom s’inserisce in una revisione più generale contro gli eccessi degli ultimi anni: quando nelle scuole pubbliche era diventato normale incoraggiare bambini a interrogarsi sulla propria identità di gender, offrire trattamenti farmacologici per bloccare la pubertà, affermare il loro diritto a cambiare sesso senza il consenso dei genitori. Anche nel mondo progressista è cresciuta la rivolta contro un indottrinamento dall’alto molto pericoloso, perché i disagi e i turbamenti tipici della pubertà e adolescenza sono stati «indirizzati» verso una spiegazione univoca, la rimessa in discussione dell’identità di gender. Con l’esclusione delle famiglie. Su questo terreno la sinistra ha perso consensi proprio fra quelle classi lavoratrici e quelle minoranze etniche che diceva di voler rappresentare.”

L’articolo cita anche altri esponenti della sinistra USA che starebbero prendendo le distanze dall’assolutizzazione portata nel campo dei diritti dalla cosiddetta “cultura woke”. Sarebbe quindi in corso una riflessione (ahimè successiva alla sconfitta elettorale) su temi effettivamente delicati e dirimenti. Perché, diciamolo, una cosa è la giusta e doverosa battaglia contro le discriminazioni. Altro è ritenere parte integrante di questa battaglia il consentire che un uomo che si percepisce donna possa gareggiare nello sport femminile; o consentire ad un bambino di prendere farmaci ormonali contro il parere o all’insaputa dei genitori; e più in generale tutta la deriva ideologica che parte dal considerare l’autodeterminazione come un assoluto che non deve essere sottoposto ad alcuna verifica, con tutte le conseguenze che ne derivano, incluso lo sdoganamento della maternità surrogata cosiddetta “solidale” (figuriamoci). Il tutto portato avanti con arroganza estrema, come se si stesse parlando di scienza indiscussa. Tanto che viene rifiutata perfino la definizione di “teoria del gender”, perché fa problema il termine “teoria”: ne avevo parlato diffusamente in questo post di cinque anni fa.

Sarebbe stato meglio pensarci prima delle vittorie di Meloni e di Trump (l’ordine è solo cronologico), ma meglio tardi che mai. E se negli USA davvero ci sarà il coraggio e la capacità di distinguere fra le discriminazioni vere, da combattere con serietà e determinazione, e le derive ideologiche assurde della cosiddetta “cultura woke”, il mondo democratico e la sinistra statunitense ne usciranno migliori e anche più elettoralmente competitivi, il che non guasta. Mi chiedo solo quanto tempo ancora ci vorrà dalle nostri parti per cominciare a porsi con serietà le stesse domande.

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