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Al termine dei suoi cinque anni di mandato, il garante dei diritti dei detenuti dr. Marighelli ha relazionato sull’attività svolta nel 2021 durante i lavori dell’Assemblea dell’altro ieri. Una relazione densa e sofferta che ha preso l’avvio da una notizia positiva: l’impulso dato dalla ministra della giustizia Marta Cartabia al rinnovamento dell’amministrazione penitenziaria, con la Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle rivolte nelle carceri, dove parecchi detenuti hanno perso la vita, e la Commissione Innovazione, per promuovere un miglioramento della situazione degli istituti penitenziari. Un secondo ottimo risultato è l’istituzione facoltativa dei Garanti comunali, ottenuta grazie al lavoro di promozione e di diffusione della cultura dei diritti svolto dalla Commissione Parità regionale. Si realizzerebbe così quella rete di istituti di garanzia che, dal Garante nazionale ai Garanti regionali ai Garanti comunali, tutela i diritti delle persone private della libertà personale, come richiesto dal Protocollo opzionale ONU, sottoscritto anche dall’Italia, per la prevenzione dei trattamenti disumani e degradanti nei confronti dei detenuti. La sanità presente nelle nostre carceri ha, inoltre, realizzato il principio della piena parità tra le persone in carcere e le persone libere: si è concretamente realizzata la campagna vaccinale e sono presenti sia gli screening di prevenzione delle principali malattie oncologiche sia altre attività di prevenzione.
I dati, però, volgono poi al negativo: nel 2021 l’ufficio del Garante ha gestito complessivamente 231 richieste d’intervento, quasi tutte riguardanti problemi legati alla salute e alle condizioni detentive. Dobbiamo distinguere, infatti, tra sanità e salute, intesa come benessere psicofisico: da questo punto di vista scontiamo un’arretratezza importante. La salute, intesa come possibilità di avere spazi, tempi e luoghi per il lavoro, alimentazione più attenta ed equilibrata, ambienti salubri è in forte difficoltà nei nostri istituti. Inadeguati gli ambienti, con umidità e infiltrazioni di acqua piovana e il sempre presente sovraffollamento, reso ancora più drammatico dal Covid: sono queste le segnalazioni fatte più frequentemente. La riforma del 2018, che ha stabilito che devono essere messi a disposizione dei detenuti spazi per le attività sportive, culturali e di lavoro, è rimasta lettera morta: siamo fermi al semplice tempo all’aria aperta, che nella maggior parte dei casi si svolge nei cortili di cemento, freddi d’inverno e caldi d’estate. Inoltre, l’inattività e l’ozio non riescono a dare un senso al tempo della pena, per cui le persone all’interno del carcere perdono la speranza e la prospettiva di un reinserimento sociale. Ultimo nodo è quello del lavoro, sia all’interno degli istituti penitenziari – che si reggono sul lavoro dei detenuti, dalla cucina alle pulizie, alla manutenzione – sia alle dipendenze di imprese esterne. Nelle carceri è pressoché impossibile lavorare, perché non sono state costruite per le attività lavorative: come mostra bene il documentario realizzato nel carcere della Dozza, dal titolo “Meno male è lunedì”, per realizzare l’officina interna si è dovuto abbattere un muro e costruire un varco per far entrare le materie prime. Lavorare all’esterno è altrettanto difficile, per la non semplice attivazione dei percorsi di lavoro di pubblica utilità e della sospensione del procedimento penale per la messa alla prova (MAP).
Un ultimo “nota bene” sulla questione femminile. La donna in carcere è soggetta a un’estrema emarginazione, dal momento che molte attività le sono precluse, dallo sport all’istruzione. Per non parlare della mancata realizzazione del sistema di accoglienza in casa-famiglia delle donne detenute con bambini, che costringe i bambini a stare in carcere, con effetti estremamente negativi.
È evidente che il modello organizzativo sia inadeguato a raccogliere la sfida della modernità e non idoneo a tutelare i diritti delle persone sottoposte all’esecuzione della pena. Se si considera che il personale educativo è stato sottoposto a una drastica riduzione e che sul personale di Polizia penitenziaria gravano troppi compiti, è chiaro che il modello “custodiale” dei nostri istituti di pena non sia né moderno né europeo. Per realizzare davvero la tutela dei diritti delle persone detenute serve prevalentemente personale educativo, operatori sociali, insegnanti, maestri di attività lavorative e di formazione professionale, psicologi. A quando una vera riforma?