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Mercoledì 11 maggio sono intervenuto alla tavola rotonda che concludeva il convegno dal titolo “La professione sanitaria e i nuovi bisogni di salute della persona assistita: la riorganizzazione del sistema sanitario tra intelligenza artificiale e umanizzazione delle cure”. Il convegno era organizzato dalla Federazione nazionale Ordini TSRM e PSTRP all’interno di Exposanità 2022, la mostra internazionale dedicata alla sanità e all’assistenza, che si è tenuta nel quartiere fieristico di Bolognafiere.
Abbiamo discusso soprattutto di medicina territoriale e di iniziativa, di prevenzione primaria e secondaria, di prossimità, di come essere vicini alle famiglie e alle persone. E della necessità di cambiare il paradigma di cura, per arrivare ad occuparsi del cittadino, prima ancora che del “paziente”. Si tratta di un cambiamento culturale prima ancora che tecnologico, e che non è semplice in quanto richiede un ripensamento profondo e un cambiamento vero del modo di lavorare.
Se ci pensiamo, finora l’innovazione tecnologica che ha riguardato la sanità è stata soprattutto quella resa possibile dall’introduzione di strumenti avanzati che fanno meglio cose che si facevano già anche prima: è chiaro che una RM (risonanza magnetica) o una TC (tomografia computerizzata) sono esami più sofisticati di una radiografia, ma la loro introduzione non ha richiesto un cambiamento del modo di lavorare: semplicemente prima il radiologo guardava le lastre sul diafanoscopio, adesso esamina i risultati al computer, ma sostanzialmente il modello organizzativo non è cambiato. Per contro, ancora oggi non riusciamo a utilizzare informazioni di cui disponiamo, come le analisi del sangue della popolazione, per realizzare una vera e propria medicina di iniziativa che proponga alle persone che non si presentano spontaneamente esami mirati a tutela della loro salute, coinvolgendo medici di base, specialisti ed altre professioni sanitarie. E’ solo un esempio, per comprendere come da un lato sono entrati nell’uso comune strumenti costosi e sofisticati che non richiedevano cambiamenti del modo di lavorare, dall’altro come cose più semplici non si riescono a fare semplicemente perché non riusciamo a superare l’idea che sia il paziente a dover andare dal medico, cambiando in modo significativo le modalità organizzative della nostra sanità.
Di solito si argomenta che mancano i finanziamenti per poter cambiare radicalmente le cose, ma in realtà se avessimo la forza e il coraggio di cambiare il paradigma, riusciremmo a liberare risorse significative. Per fare solo un esempio, ritardare di un anno l’ingresso in dialisi di una persona con insufficienza renale significherebbe un risparmio per il sistema pubblico di circa 50-60mila euro l’anno. Ma per farlo, non possiamo semplicemente aspettare l’insorgere dei sintomi, che nelle nefropatie di solito significa che è già troppo tardi. Per non parlare dei risparmi sociali connessi al miglioramento delle condizioni di salute dei cittadini. Per questo è importante mettere al centro il cittadino, avere il coraggio di portare il ragionamento fino in fondo. Riconoscere, ad esempio, che la frontiera di un nuovo paradigma di cura non dev’essere la casa della salute – organizzate sul territorio per riprodurre lo schema già collaudato sugli ospedali – ma la casa del cittadino: è lì che dobbiamo arrivare.
Dobbiamo superare concetti statici, come quello della “presa in carico”, quel meccanismo per cui se non sei abbastanza grave ti devi arrangiare, fino a quando non ti aggravi e a quel punto diventi pienamente a carico del sistema (e qualcuno osserva che curare quel tipo di pazienti a domicilio non comporta un grosso risparmio rispetto al fatto di ricoverarli). Invece avremmo bisogno di interventi precoci, di flessibilità, di collaborazione fra sanità e sociale, di coinvolgimento dell’associazionismo e del volontariato.
Dobbiamo superare la frammentazione, unificare la visione. Troppo spesso infatti ci sono cose pur importanti come la privacy che diventano un ostacolo nel procedere con la medicina di iniziativa, nell’andare verso il cittadino con proposte che migliorino la sua salute. Come pure non è accettabile che ogni volta che si realizza un progetto sperimentale a domicilio – ad esempio collocare un sensore a casa o addosso alla persona per poterla curare meglio – si debba ogni volta reinventare da zero il sistema di comunicazione. Con la conseguenza che alla fine costa di più il sistema di comunicazione per far arrivare i dati al sistema di monitoraggio, più che i dispositivi di monitoraggio in sé. Anche in questo caso è necessaria una visione unificante, con uno standard di comunicazione unico e a disposizione per tutti i progetti, sperimentali o ordinari che siano.
Queste considerazioni, che sarebbero comunque fondate anche in tempi normali, sono ancora più dirimenti in questo frangente in cui abbiamo a che fare con tre crisi. La prima crisi è quella della pandemia, uno stress test del sistema sanitario che ha fatto emergere criticità importanti. Ovviamente speriamo tutti di uscire dal tunnel del covid-19, ma sarebbe un vero peccato ritornare al passato senza avere imparato nulla. La seconda crisi è la carenza di medici, e qui – al di là degli errori che hanno contrubuito a generarla – occorre capire come affrontarla. Un modo è appunto provare anche a cambiare paradigma e ragionare di collaborazioni e multidisciplinarietà, redistribuendo il lavoro in modo tale da migliorare il livello delle cure e consentire al tempo stesso ai medici di fare i medici davvero. La terza crisi, precedente alle altre due ma che ormai sta per raggiungere l’altezza massima dell’onda, è quella demografica. Ci chiamano “boomer”, con una parola che nel gergo giovanile di oggi viene usata come sinonimo di “anziano”, ma è un fatto che noi boomer stiamo raggiungendo la terza età, e quando arriveremo faremo saltare tutti i numeri se lo schema rimarrà quello di un assistenza basata essenzialmente sui ricoveri.
Parlo di queste cose, da ormai oltre quindici anni, ma il mondo sanitario continua ad essere dominato da figure che faticano a distaccarsi dalla tradizione dell’assistenza ospedaliera e dal concetto per cui è il paziente a cercare il medico e non viceversa. Invece, se vogliamo che queste crisi siano l’occasione per un cambiamento positivo, dobbiamo avere il coraggio di cambiare paradigma, cercando di andare incontro ai cittadini, con la prevenzione e la medicina di iniziativa, offrendo un nuovo patto ai professionisti sanitari e via via fino all’intera società civile.
Dalla tavola rotonda ho ricevuto la richiesta di istituire un tavolo regionale insieme alle associazioni dei professionisti sanitari per discutere di come fare passi concreti in questa direzione. Come consigliere regionale mi impegnerò perché questi luoghi di confronto si attivino, in modo da cominciare davvero a costruire un percorso insieme.