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40 anni dopo il terremoto dell'Irpinia

28 Novembre 2020 Memoria

La ricorrenza dei 40 anni dal terremoto dell’Irpinia del 1980, avvenuta in questi giorni, mi ha portato a riguardare foto e appunti che sono rimasti sepolti in una scatola per quattro decenni. La memoria è quindi tornata in particolare al viaggio un po’ rocambolesco che mi portò, insieme ad un manipolo di amici, a prestare aiuto in quelle terre nei giorni immediatamente successivi al sisma, nei primi giorni del dicembre 1980. Sarei poi tornato laggiù anche nell’estate successiva, insieme a molti altri amici, col tempo bello e in una situazione molto più stabilizzata, a montare le casette prefabbricate della Caritas diocesana nel comune di Morra De Sanctis.

Ma torniamo alle 19:34 di domenica 23 novembre 1980, quando una scossa di un minuto e mezzo di magnitudo 6,9 (ovvero X grado della scala Mercalli, più usata a quell’epoca) devastò un’area (come ci ricorda oggi Wikipedia) di 17 mila kmq che si estendeva dall’Irpinia al Vulture, posta a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza, causando circa 280 mila sfollati, 8.848 feriti e 2.914 morti.

Io avevo compiuto 18 anni neanche 4 mesi prima, ero uno studente liceale impegnato a scuola e in parrocchia, nella periferia di una Bologna che aveva da poco vissuto la strage della stazione centrale. Ero reduce da quattro anni di racconti degli amici più grandi di me, che avevano avuto la possibilità di andare ad aiutare nella ricostruzione del Friuli dopo il terremoto del 1974, mentre io ero ancora troppo giovane. Quindi, quando successe, peraltro in un territorio cui ero legato perché campano per origine paterna (ma del Cilento, zona assai meno colpita dal sisma rispetto all’Irpinia), non avevo bisogno di pensarci: ero pronto, volevo partire subito per andare ad aiutare.

In quei giorni convulsi in cui i primi soccorritori scavavano fra le macerie, la macchina degli aiuti era lungi dall’essere pronta. In parrocchia arrivarono altre disponibilità oltre alla mia, e nel giro di qualche giorno don Ferdinando, che era da poco parroco al Don Bosco, ci radunò, fece qualche telefonata alla Caritas di Bologna e ai salesiani di Salerno, ci diede le chiavi del pulmino e ai primi di dicembre partimmo per la zona terremotata. Era dicembre, e faceva un gran freddo. Dopo aver fatto tappa qualche ora all’oratorio Don Bosco di Salerno arrivammo dove ci dissero di andare, nel comune di Campagna (SA).

Ho riletto gli appunti di allora. Il paese era tutto inagibile, la montagna di fronte si era spaccata. Noi eravamo accampati dai campi da tennis, dove c’erano circa 100 sfollati, ma per lo più operavamo nella tendopoli allestita al campo da calcio che era oltre il paese, contenente circa 500 persone. Al quadrivio c’erano una cinquantina di volontari del PCI di Roma, che distribuivano questionari, mentre a Puglietta (una frazione ai piedi della montagna) c’erano 150 volontari del comune di Milano, che erano arrivati con delle baracche di lamiera da montare.

Il giorno del nostro arrivo c’era ancora un’enorme confusione: il sindaco era irreperibile, i carabinieri lo cercavano, nel pomeriggio arrivò l’esercito (era il 40esimo fanteria, da Bologna) che cominciò ad allestire la cucina da campo nella tendopoli presso il campo sportivo. Alla una di notte arrivò una scossa fortissima, alle 4 del mattino una delle nostre due tende venne divelta e abbattuta dal vento. Il vento non scherzava: nei giorni successivi i milanesi montarono delle baracche in lamiera (il tipo da cantiere edile) per gli sfollati che dormivano vicino a noi e per l’asilo delle suore, ma nella notte il vento ne distrusse un paio, ricordo ancora la parete di lamiera attaccata alla rete di recinzione dei campi da tennis a mò di festone, ovviamente con una certa dose di rischio perché se il vento l’avesse scaraventata sulle tende sarebbero stati dolori seri.

A noi avevano dato da gestire il magazzino con gli aiuti giù al campo sportivo, montammo anche noi (ma in modo un po’ più solido) alcune baracche, e man mano che arrivavano i camion con gli aiuti (per lo più vestiti e calzature pesanti, immaginate le esigenze di gente che aveva dovuto lasciare tutto e viveva in tenda con un tempo da lupi) noi catalogavamo il tutto e poi organizzavamo le distribuzioni. Ricordo le file, le storie commoventi che ci capitava di ascoltare, ricordo anche i furbetti (tipo lo stesso cinno che arriva scalzo, va via con gli stivali nuovi, e subito dopo torna scalzo a prenderne un altro paio), il problema di conciliare l’aiuto con l’equità. Un giorno un volontario, mosso a compassione, diede qualche vestito fuori dall’orario della distribuzione, e in men che non si dica si trovò circondato e strattonato da altre persone che pretendevano di essere servite anche loro. Dovemmo intervenire in modo robusto per placare gli animi, e ricordo bene la frustrazione di quel volontario che si era ritrovato aggredito da coloro che era venuto ad aiutare. Fu un insegnamento importante, perché per aiutare serve il cuore ma anche il cervello, come mi spiegarono ancora meglio i missionari che ho conosciuto negli anni successivi in Africa: è per questo che ancora oggi diffido delle forme di aiuto che cercano di risolvere i problemi attraverso scorciatoie e forme di illegalità, ma in realtà finiscono per amplificarli.

Il freddo pungente, il vento terribile, le notti nelle tende, la macchina dei soccorsi che doveva ancora organizzarsi, qualche episodio negativo e faticoso, ci fecero comprendere in modo chiaro la fatica di tradurre le migliori intenzioni in concreta realtà e realizzazioni. Ma nonostante ciò, l’esperienza concreta di aiutare gli altri nel momento del bisogno, il calore umano delle persone, la sensazione di essere utili in frangenti così drammatici fu e rimane indimenticabile. Nei miei appunti trovo i nomi di Tonino, Enrico, Damiano, Liberato, Cosimo, Assunta, Vito, Enzo, che erano alcuni dei nostri vicini, guardo i visi nelle poche foto che mi restano di quei giorni, penso ai bambini che saranno ormai adulti fatti, agli adulti di allora che saranno anziani, alle loro vite successive. E poi agli altri volontari incontrati là, fra cui Pietro, Ignazio, Carmelo, Rita e don Giorgio che erano venuti da Salerno.

Infine, noi sette partiti da Bologna. Gabriele e Andrea avevano 18 anni come me, erano nella stessa classe del Galvani. Daniele, colonna della parrocchia, aveva 28 anni. Agata aveva 26 anni, abitava in zona, Silvia ne aveva 22 e suo babbo Sergio 54. A tutte le persone incontrate a Campagna e tutti i miei compagni d’avventura mando un abbraccio, dovunque siano, dovunque siate.

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