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Articolo pubblicato nei giorni scorsi su Cantiere Bologna
Il Partito democratico è un «soggetto e progetto di centrosinistra», in cui fare sì che «culture e concezioni ideali diverse non solo convivano, ma si ascoltino, così da produrre nuove visioni e nuove sintesi», un partito «riformatore non solo nella sua ispirazione ideale e programmatica, ma anche in quanto attivamente impegnato» verso la «sovranità del cittadino-elettore, arbitro della scelta di governo». I virgolettati sono tutti presi dal Manifesto dei valori approvato quindici anni fa quando il Pd è nato.
È facile dedurre che scegliere di qualificare il Pd semplicemente come partito di sinistra, accentuandone peraltro la radicalità, costituirebbe uno snaturamento del progetto originario. Anzitutto perché passare da centrosinistra a sinistra significherebbe rinunciare – quanto si vedrà lungo la strada – alla pluralità interna, ma anche perché ciò implicherebbe la definitiva rinuncia al bipolarismo e alla democrazia governante. Si potrebbe obiettare che la storia politica italiana abbia già archiviato quel progetto (o sogno, secondo alcuni), ma è un fatto che l’Ulivo prima e il Pd poi siano nati in quella prospettiva e con quel dna. Ora, se quel Pd non serve più, lo si dica e si abbia il coraggio di assumersi la responsabilità di chiudere quell’esperienza con onestà intellettuale e serietà verso iscritti e elettori.
Perché questa “svolta a sinistra”, certamente possibile quanto a mio avviso sbagliata, è diventata così popolare da costituire il principale carburante per la vittoria di Elly Schlein alle Primarie?
Anzitutto per il bisogno di trovare una motivazione consolatoria alle ripetute sconfitte del Pd. Secondo me abbiamo perso consenso per una mancanza di credibilità e coerenza, per l’incapacità di affrontare le questioni, gravi e serie, che toccano la vita vera delle persone e per l’assenza di rinnovamento della classe dirigente. Ma con un sistema elettorale bloccato in cui i parlamentari vengono scelti a tavolino e gli elettori possono solo ratificare tali scelte, secondo voi la classe dirigente in questione aveva intenzione di passare la mano, aveva voglia di mettersi in discussione? Meglio dare la colpa al “ma anche” di veltroniana memoria, incolpato di veicolare messaggi non sufficientemente chiari e netti all’elettorato, e immaginare che una maggiore radicalità di sinistra potesse servire per recuperare consenso.
Questa motivazione interna al Pd, consistente ancorché minoritaria fra gli iscritti, si è unita alle ragioni di chi dall’esterno voleva cambiare, abbattere o riconquistare il partito, a seconda dei punti di vista.
C’era infatti chi era uscito dal Pd ritenendo la segreteria di Renzi una sorta di malattia e voleva ripristinare l’egemonia della “ditta” nella conduzione del partito. E c’era anche chi nel Pd non aveva mai creduto e quindi voleva terminarne l’anomalia, ripristinandolo come “il principale partito della sinistra”, anzi facendo finta che non fosse mai stato nulla di diverso da ciò. A questo proposito si è arrivati perfino a cooptare, nel comitato di saggi chiamato a rivedere il patto fondativo, anche persone che coerentemente negli anni avevano sempre manifestato la propria avversità al progetto: un po’ come chiamare gli eredi dei Savoia in un consesso chiamato ad aggiornare la Costituzione repubblicana, e poi stupirsi del fatto che ne propongano la sostanziale abolizione. Infine, terzo fattore esterno, ci sono stati elettori di altri partiti che non hanno voluto perdere l’occasione di cambiare natura al Pd, magari senza nemmeno avere l’intenzione di lasciarsi coinvolgere, ma solo per disporre di una maggiore affinità nell’interlocuzione futura.
Il sommarsi delle spinte interne e di quelle esterne è stato determinante, a mio parere, per la vittoria di Elly Schlein nelle Primarie del 26 febbraio. Si tratta ora di capire quali scelte farà la segretaria e chi deciderà di deludere, visto che non vedo come sia possibile riuscire a tenere insieme l’unità del partito con una svolta “radicale” sui temi. E non c’entra il fatto che Elly Schlein sia donna e giovane, elementi indubbiamente positivi, perché va presa sul serio e valutata sulle sue idee e le sue scelte politiche e di merito. Se è squallido il maschilismo di chi esclude le donne in quanto tali a prescindere dal loro valore personale, è squalificante anche il paternalismo di chi chiede di sostenere le donne solo in base al genere e non al loro valore e alle loro idee. E qui il tema politico è precisamente questo: come è possibile tenere unito il Pd nella sua pluralità e al tempo stesso svoltare con decisione verso sinistra? E soprattutto, in che senso “a sinistra”?
Sono domande importanti da porsi, a cui in conclusione posso soltanto accennare. Perché è vero che purtroppo anni di selezione della classe dirigente nazionale sulla base della fedeltà ai capi di turno hanno prodotto un deterioramento del tasso di idealità e al tempo stesso una capacità incredibile di digerire svolte repentine e a volte perfino surreali su svariati argomenti, ma questo è appunto un problema che andrebbe superato (a proposito di credibilità e di risultati). Gli esempi che si potrebbero fare sono tanti, dalla velocità con cui si è passati dal “Conte o voto” a Draghi premier, o ai promotori della svolta progressista che fingono di non essere stati a suo tempo sfegatati renziani. Ci potremmo anche interrogare su quale sia il tasso di idealità di quegli esponenti che storicamente provengono dalla Margherita se non proprio dalla Dc e che hanno cavalcato la proposta di svolta a sinistra portata avanti con la candidatura di Schlein.
Potremmo chiederci quanto sia di sinistra l’attuale deriva sui cosiddetti diritti civili che è più propria della tradizione del Partito Radicale che di quella della sinistra storica che viene dal Pci-Pds-Ds. Eppure sono quelli i temi che sostanziano maggiormente l’aggettivo sinistra oggi, in particolare nei confronti delle giovani generazioni. E infine potremmo chiederci perché i ripetuti investimenti operati (alla luce del sole) per esempio dalla fondazione americana Social Changes su singoli candidati del Pd e della sinistra (come Elly Schlein) non siano mai stati compresi come una “Opa” sul partito, quali in realtà, alla prova dei fatti, erano effettivamente.
Sono tutte questioni aperte in cui il merito degli argomenti si incaricherà di chiarire quale sia effettivamente la linea politica uscita da queste Primarie, al di là delle dichiarazioni di maniera sull’importanza dell’unità interna. Perché i fatti sono testardi e i nodi alla fine vengono al pettine.
Always hope for the best, but prepare for the worst.