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Cosa non va nel ddl contro l'omofobia

16 Luglio 2020 Riflessioni

In questi giorni la Commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha adottato il testo del relatore Alessandro Zan sull’omofobia come testo base del disegno di legge “Misure di prevenzione e contrasto della violenza e della discriminazione per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere”.

È un testo che non mi convince, per diverse criticità che voglio provare a spiegare. Mi rivolgo in primis ai parlamentari del mio partito che hanno lavorato sul testo, nella speranza che siano sensibili all’idea di rappresentare un partito che ha l’ambizione di essere largo e plurale. E mi rivolgo ai parlamentari del PD che dovrebbero essere più vicini alla mia sensibilità, invitandoli ad occuparsi in modo robusto della questione, deponendo eccessi di cautela e tatticismi che rischiano di relegarli in una posizione subalterna: a rischio non c’è solo la credibilità personale, ma per l’appunto lo stesso progetto di PD come partito largo e plurale.

Mi rendo conto che la loro sia una posizione difficile, perché io ci sono già passato. L’Assemblea Legislativa dell’Emilia-Romagna infatti negli anni scorsi ha affrontato un ampio dibattito proprio su una proposta di legge sulla prevenzione ed il contrasto di violenze e discriminazioni verso le persone lgbt+. Pur su un piano diverso (le regioni non hanno competenze in campo penale) diverse delle criticità che ritrovo nel testo parlamentare erano presenti anche nella proposta di legge regionale. Insieme ad un gruppo di colleghi abbiamo affrontato queste criticità prendendo una posizione chiara.

Questo ha comportato ricevere una serie di insulti sui social, raccolte di firme ed appelli contro di noi, accuse di omofobia, c’è stato perfino un cartello con i nostri volti e la scritta “stop omofobia istituzionale” sventolato da un attivista durante una manifestazione delle associazioni lgbt+ davanti alla Regione, attivista che peraltro (ironia della sorte) era anche consigliere comunale del PD in un comune emiliano. I toni di questa reazione sono in effetti già parte del problema, ma la cosa più antipatica è la diffusa convinzione che le posizioni possibili siano soltanto due: o stai con la Cirinnà o con Pillon, tertium non datur. Una polarizzazione veramente assurda.

Chi ci insultava era convinto che il nostro scopo fosse quello di impedire che la legge regionale venisse varata. Poi però le cose sono andate diversamente. Dopo un confronto lungo e complesso, trovata una formulazione che sciogliesse positivamente le maggiori ambiguità, la legge è stata fatta. Per approvarla, a causa del durissimo ostruzionismo dei partiti di destra, è stata necessaria una seduta di circa 40 ore: abbiamo trascorso due giorni e due notti in aula a discutere e votare migliaia di emendamenti.

Abbiamo così dimostrato coi fatti che esiste almeno una terza posizione, che non condivide l’approccio ideologico di Arcigay (altrimenti avremmo aderito alla proposta originale), ma che si impegna nel contrastare violenze e discriminazioni verso le persone lgbt+ (altrimenti non saremmo stati 40 ore in aula per piegare l’ostruzionismo della destra). Nella nostra posizione si sono riconosciuti segmenti di mondi vari, pezzi dell’associazionismo cattolico, segmenti del mondo femminista e lgbt+. Il PD ha votato unito, la legge è stata accolta senza particolari scossoni. È quel che dovremmo fare sempre come PD, a mio avviso: tessere una tela che tenga conto di una complessità, invece di affidarsi ai pasdaran di una sola posizione.

Basterà l’esperienza fatta in Emilia-Romagna a dimostrare la possibilità e la legittimità di una terza posizione e liberarci dall’odioso dualismo che sembra governare questi argomenti? Francamente ne dubito, visti anche i toni che sta assumendo il dibattito sulla proposta di legge nazionale. Dovendo quindi mettere in conto la possibilità di ricevere una nuova salva di insulti per la mia presa di posizione, già che ci sono provo a mettere tutti i discorsi in fila. E comunque la speranza è l’ultima a morire: chi chiede a gran voce una legge per i diritti delle persone lgbt+, criticando una rappresentazione binaria della realtà (quella in cui esistono solo maschi e femmine a seconda del sesso biologico), potrebbe in effetti cominciare a dare il buon esempio non pretendendo di imporre una visione binaria sull’approccio a questi temi e bollando come omofoba ogni posizione diversa dalla propria.

Il punto è proprio questo: è possibile difendere le persone lgbt+ da violenze e discriminazioni senza necessariamente assumere un approccio ideologico che sa molto di pensiero unico. Se lo scopo fosse quello dichiarato, ricercare un approccio largo e ampiamente condivisibile sarebbe l’opzione più ragionevole. Se non lo si vuole fare, evidentemente è perché l’obiettivo è proprio imporre un approccio ideologico, che per brevità indicherò come la posizione di Arcigay, anche se naturalmente lo schieramento che la supporta è più ampio della sola associazione in questione.

Capisaldi di quell’impostazione sono: la convinzione che sesso, genere, orientamento di genere e identità di genere siano aspetti fra loro del tutto indipendenti e che possano liberamente assumere ogni possibile connotazione; che il fondamento per ognuno di questi parametri sia solo l’autodeterminazione di ogni persona; che la società non possa entrare nel merito del valore sociale di ogni formazione familiare venga promossa perché se c’è amore (love is love) allora non può che esserci riconoscimento (paritario) da parte della società. La predominanza assoluta dell’aspetto culturale, il fondamento totale sull’autodeterminazione e l’assenza di riconoscimento di ogni ancoraggio alla biologia costituiscono in questa visione la garanzia di uguaglianza: se a partire dalle definizioni si elimina il concetto di normalità e quindi di diversità, tutto diventa fluido, ognuno sceglie liberamente come collocarsi su ognuno dei diversi parametri che definiscono l’identità sessuale della persona, nessuno è uguale e quindi tutti sono uguali (come appunto recita uno degli slogan di Arcigay).

Questa posizione viene presentata come risultato condiviso degli studi di genere e come unica fondata scientificamente. In realtà rappresenta una linea di pensiero, che non è certo l’unica possibile, né la sola che trovi riscontri in ambito scientifico. Non è condivisa da chi individua un legame deterministico fra sesso e genere, e vorrebbe tenere uniti i due concetti. Ma nemmeno da chi, pur riconoscendo un ruolo alla componente culturale e distinguendo sesso da genere, ritiene che la biologia giochi comunque un ruolo importante. Affermare che la biologia condizioni l’identità sessuale, come ampiamente dimostrato dalla scienza, non significa infatti negare il ruolo degli aspetti sociali e culturali. Per dirla con le parole di Papa Francesco nell’enciclica “Amoris laetitia”, non si deve ignorare che «sesso biologico (sex) e ruolo sociale-culturale del sesso (gender), si possono distinguere, ma non separare».

Le parole sono importanti. Il concetto di identità di genere nel progetto di legge non viene definito, ma nel testo di 9 articoli e circa 1500 parole ricorre ben 18 volte. Nella relazione introduttiva si afferma che si è scelto di usare le espressioni sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere, per “assicurare una formulazione giuridicamente precisa” (siamo sicuri?), per “proteggere da discriminazione e violenza il sesso e ogni declinazione del genere, degli orientamenti sessuali e dell’identità di genere”, che si tratta di “concetti e termini cui l’ordinamento giuridico fa già ampio uso” (insomma). Poi, sempre nella relazione, la si definisce: “per identità di genere si intende la percezione che una persona ha di sé come rispondente ad un genere, anche se non corrispondente al proprio sesso biologico”.

Tale definizione mette al riparo, per esempio, dall’ipotesi che un maschio biologico abbia una percezione di sé come donna e, senza intervenire su sesso, genere e orientamento sessuale, possa quindi – in accordo alla propria identità di genere – decidere di frequentare spogliatoi e bagni femminili, partecipare a gare sportive femminili, accedere alle quote rosa, e così via? Naturalmente no. Quindi non stupisce che una parte del mondo femminista (ed anche del mondo lgbt+) abbia fatto sentire la sua voce contraria, perché si tratta di una formulazione che fondamentalmente rischia di negare alla donna di essere tale. Diverse femministe lo hanno detto esplicitamente: si rinunci al concetto di “identità di genere” e lo si sostituisca con un più limpido “transessualità”, e si tolga dalla legge la parte relativa alla misoginia, perché le donne non sono un caso particolare del mondo lgbt+.

Ora, l’identità di genere c’è anche nella legge regionale 15/2019 dell’Emilia-Romagna di cui parlavo prima, a partire dal titolo, solo che nell’art. 1 si precisa: “la Regione riconosce il diritto all’autodeterminazione di ogni persona in ordine al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere, secondo quanto disciplinato dalla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), anche mediante misure di sostegno.” Abbiamo così ricondotto il concetto di identità di genere nell’alveo delle norme vigenti in materia di rettificazione di attribuzione del sesso, ovvero alla transessualità. E l’autodeterminazione deve confrontarsi (e incontrarsi) con le leggi e con le regole. In poche parole, la definizione (e il perimetro del significato) di identità di genere è diverso. Il che peraltro dimostra che il termine non è di per sé “giuridicamente preciso” e che non basta dire che sia già stato utilizzato.

Perché è importante sottolineare che, nella relazione, l’identità di genere sia definita unicamente sulla “percezione di sé”? Prima di tutto per le sue conseguenze dirette sulla legge, di cui ho già detto e di cui sono state sottolineate le implicazioni misogine dal mondo femminista. In secondo luogo, perché chiarisce che l’impostazione culturale è fondata completamente sull’autodeterminazione, senza doveri o contrappesi, con parametri totalmente disancorati dalla biologia, senza alcuna correlazione nemmeno fra loro, e che quindi possono assumere in modo fluido infinite combinazioni (“ogni declinazione”). Infine, perché questa impostazione culturale ha conseguenze anche su temi che nella legge non sono espressamente toccati, ma che con ogni evidenza fanno parte dell’agenda politica di chi l’ha scritta in quel modo.

Sesso, (ruolo di) genere, orientamento sessuale e identità di genere sono concetti e termini introdotti dagli studi di genere. Mentre alcuni studi attestano come la biologia giochi comunque un ruolo importante, per altri studiosi l’aspetto sociale e culturale è talmente dominante da rendere possibile ragionare su questi concetti svincolandoli completamente dalla biologia, che rimane confinata solo al termine “sesso”. Peraltro, se si specifica che sul parametro “sesso” insiste la possibilità di rettificazione, come dice espressamente la relazione allegata alla legge, invece che sul genere, allora ne consegue che in questa babele di nuovi termini del tutto indipendenti, non ne rimanga nemmeno uno che esprima quale sia il patrimonio genetico di una persona in relazione – per l’appunto – al sesso.

Ma non voglio qui discutere del merito di questa tesi: voglio semplicemente sottolineare che ritenere che questi parametri siano del tutto indipendenti fra loro, potendo assumere infinite combinazioni e senza che la biologia giochi alcun ruolo nell’indirizzarli, è per l’appunto una teoria fra le diverse possibili. Peraltro, è naturale che sia così, se stiamo parlando di scienza.

Chi combatte, in alcuni casi con metodi e argomenti non meno discutibili, questa impostazione, la chiama infatti “teoria del gender” o “ideologia del gender”. L’etichetta può piacere o meno, ma non mi pare che possa essere negato che si tratti per l’appunto di una ipotesi, una teoria. Invece, questo aspetto viene ferocemente negato, e continuiamo a sentire ripetere che la teoria del gender non esiste, e addirittura che parlare di teoria del gender sarebbe complottismo. Che senso ha questa insistenza nel negare l’esistenza di una teoria del gender? Se il problema è il nome, la si chiami con un altro nome. Se invece lo scopo è negare che si tratti di una teoria, vale a dire che si tratterebbe di una verità indiscutibile, allora saremmo di fronte ad un bel problema.

Se si parla di scienza, infatti, non si può che parlare di teorie e di dimostrazioni. La teoria della relatività di Einstein si fonda su alcuni postulati ed ha anche avuto diverse conferme sperimentali, ma continuiamo serenamente a chiamarla teoria. E qui che problema c’è a riconoscere che siamo di fronte ad una impostazione che si fonda su alcune ipotesi e pertanto è una teoria? Negarlo significa abbandonare il terreno scientifico per spostarsi altrove: verità di fede? O pensiero unico? Francamente, la trovo una china pericolosa.

Se è vero, come è vero, che l’idea della totale indipendenza dei parametri citati dalla biologia, da forme di correlazione interna, e il fondarli completamente sull’autodeterminazione (non solo l’orientamento sessuale, aspetto su cui è del tutto ragionevole, ma anche il caso molto più delicato dell’identità di genere) è per l’appunto una teoria, rilevo che questa legge la assume, completamente. Anche se non è per nulla necessario farlo ai fini di tutelare le persone lgbt+ da violenze e discriminazioni.

Non solo la proposta di legge assume questo impianto teorico, ma intende elevarlo ad una valenza costituzionale: la relazione parla infatti di “riconoscere il sesso, il genere, l’orientamento sessuale e l’identità di genere quali aspetti della personalità meritevoli di riconoscimento giuridico e protezione ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione”.

Queste considerazioni impattano ovviamente sul perimetro che si intende dare alla parola “discriminazioni”, che ricorre ovviamente molte volte nel testo ma che non viene mai definita. Non ci giro intorno e faccio due esempi espliciti. Se a una persona viene negato un lavoro perché omosessuale, quella è certamente una discriminazione da colpire. Se invece si vuole fare passare come discriminazione la condanna della pratica della gestazione per altri, allora proprio non ci siamo. Non sto citando cose a caso: nella giornata contro la violenza alle donne del 2018, un manifesto di Arcigay sosteneva che l’espressione “utero in affitto” fosse violenza.

E’ quindi del tutto ragionevole che da più parti si levino voci preoccupate dell’impatto sulla libertà di parola dell’eventuale approvazione della legge in questi termini. Quale è il confine fra opinione legittimamente critica e opinione invece perseguibile ai sensi della legge, in quanto incitante ad una (non precisamente definita) discriminazione? Il tema è delicato, l’esperienza ricca di episodi di intolleranza di vario segno, lo scontro culturale in atto talmente profondo e manicheo – visto non solo il rifiuto di una normale diversità di opinioni, ma addirittura la negazione alla radice della legittimità di una opinione diversa dalla propria – che non si può che essere preoccupati.

Anche questo nodo è emerso nel dibattito sulla legge regionale dell’Emilia-Romagna. Vista la difficoltà a dare una definizione precisa e condivisa al termine discriminazione, al di là di qualche tentativo semantico (abbiamo ad esempio introdotto il concetto di stereotipi discriminatori, per sottolineare che ce ne possono anche essere di non discriminatori), alla fine abbiamo inserito nella legge un riferimento esplicito alla pratica della maternità surrogata. La sofferta mediazione è atterrata su questa frase: “la Regione non concede contributi ad associazioni che nello svolgimento delle proprie attività realizzano, organizzano o pubblicizzano la surrogazione di maternità”. Sulla valenza di questa formulazione vi sono ovviamente interpretazioni più ampie o più restrittive, a secondo dei punti di vista, ma è indubbio che con questa frase nel testo della legge regionale nessuno potrà mai sostenere che in base ad essa sia discriminatorio condannare la pratica della maternità surrogata.

Dico di più: vista la situazione, sarebbe tutto sommato ragionevole, da un punto di vista politico, varare – con alcune opportune correzioni – una legge contro le discriminazioni verso le persone lgbt+ e contestualmente promuovere la messa al bando a livello internazionale dell’utero in affitto. Non perché ci sia un mercato o uno scambio da fare, ma perché come è importante proteggere da discriminazioni e violenze le persone lgbt+, così è urgente sottrarre tanti bambini e tante donne ad una attività di compravendita tanto fiorente quanto indecente.

Ma so già come gli stessi colleghi che non perdono occasione per sottolineare quanto la legge in questione sia fondamentale ed urgente, quando si parla di maternità surrogata diventino immediatamente prudenti: “è un dibattito complesso”, “serve una posizione articolata e aperta”, insomma piede sul freno e non si faccia nulla. Intanto prosegue, costantemente e ormai da anni, una campagna mediatica volta a legittimare tale pratica, con articoli di stampa che sottolineano trionfalmente ogni sentenza “propedeutica” e che propongono come esempi da seguire i genitori “intenzionali” che “per amore” hanno commissionato un bambino a qualche donna usata come incubatrice, che inevitabilmente negli articoli rimane dietro le quinte.

Credo sia legittimo chiedere che la legge si occupi di proteggere le persone lgbt+ da violenze e discriminazioni senza però porre le premesse logiche per aprire la strada alla gestazione per altri e ad altre pratiche. Infatti, impostare tutto il ragionamento sull’autodeterminazione senza regole e contrappesi, e sganciarsi dalla biologia, sono le due premesse indispensabili per giungere un domani a proporre la legalizzazione della maternità surrogata. Dove l’autodeterminazione è quella della donna che si presta a fare da incubatrice e la biologia va a farsi un giro in modo da poter negare a quella donna di essere la mamma del bambino che nasce. E inoltre sono le premesse per arrivare alla regolamentazione della prostituzione, all’erogazione dei farmaci che bloccano la pubertà di minori in attesa di decidere verso quale identità di genere virare, e altro ancora.

Come si vede, i nodi discussi fin qui c’erano anche nella proposta di legge regionale. Le soluzioni trovate sono certamente perfettibili, ma intanto hanno consentito di arrivare all’approvazione della legge tenendo unito tutto il PD e senza umiliare nessuno dei nostri diversi mondi di riferimento. E non sono gli unici punti su cui siamo intervenuti.

Un nodo ulteriore è infatti quello dell’educazione nelle scuole, visti gli aspetti controversi dell’argomento. Nella legge regionale noi abbiamo scritto che occorre fare educazione “sostenendo progettualità le cui modalità assicurino il dovere e diritto dei genitori di educare la prole, ai sensi dell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani e dell’articolo 30 della Costituzione. A tale scopo la Regione valorizza la pluralità delle metodologie di intervento per garantire un’effettiva libertà di scelta.”.

Altro aspetto su cui occorre attenzione è quello di considerare l’orientamento sessuale o l’identità di genere come condizione di particolare vulnerabilità e di per sé meritevole di particolari tutele. Se si vogliono eliminare le discriminazioni, penso si debba evitare di istituire delle categorie protette. Nella legge regionale la proposta iniziale conteneva percorsi privilegiati per le persone potenzialmente discriminabili: nella legge approvata abbiamo tolto quel concetto ed abbiamo ristretto tali tutele solo alle vittime di effettive discriminazioni.

Concludo con un’ultima considerazione.

Ognuno di noi fa esperienza nella propria vita di cosa significhi accettazione del limite. A chi non è capitato di sognare di giocare in serie A o di recitare in un film pluripremiato, salvo poi dover fare i conti con una realtà che tipicamente non ci riserva quel tipo di opportunità? La vita di ogni giorno ci fa fare esperienza dei nostri limiti: a volte è difficile farci i conti, serve umiltà, ma sovente è necessario e ci aiuta a crescere. In fondo la maturità sta proprio nel trovare un punto di equilibrio fra l’accettazione dei propri limiti e quali sogni invece trasformare in progetti da portare avanti concretamente.

Definire l’identità di genere semplicemente nei termini di “percezione di sé” temo sia un modo di precipitare le persone in una solitudine individualistica che rischia di aumentare le loro sofferenze, facendo venire meno la necessità di un percorso e un confronto che credo invece sia importante anche per loro. Non discuto degli esiti né sto dicendo che li ritengo irraggiungibili: dico soltanto che sono convinto che un percorso serva. Perché chi intraprende un percorso può decidere se andare avanti e superare un confine oppure tornare indietro accettandolo come proprio. Ma se viene a mancare il percorso, se è sostituito da un interruttore mentale che in totale autonomia può essere acceso o spento, come riusciranno le persone a distinguere la propria strada dalle false piste? Non discuto le buone intenzioni, ma ricordo che quella lastricata di buone intenzioni non è sempre la via giusta…

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