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Sono nato e cresciuto in una periferia bolognese. I miei genitori venivano da posti lontani (papà dal Cilento, mamma da Genova) e all’inizio non conoscevamo nessuno. Prima in una casa di edilizia popolare, poi in un appartamento un po’ più grande poco lontano. Da bambini i nonni, che vivevano con noi, portavano me e mio fratello a vedere le caprette che erano a poche centinaia di metri da casa, nel cuore dell’attuale quartiere Savena. Per andare verso la chiesa Don Bosco, dove poi sono cresciuto e mi sono formato e che allora era ancora in costruzione, c’era una strada sterrata con dei cespugli dove mia nonna raccoglieva gli asparagi selvatici, proprio dove ora c’è il centro civico di via Faenza. Alle medie sono andato alle scuole Graziano, nello stabile ex Primodì. Poco distante avevano appena costruito le torri di via Torino. Ogni tanto incontro un vecchio compagno di scuola che mi racconta di alcuni ragazzi di allora, a scuola con noi, che sono successivamente morti per overdose o in conflitti a fuoco con la polizia. Ricordo che un ragazzino di prima media accoltellò un bidello a scuola. Una volta il professore di disegno sequestrò in classe un caricatore di pistola ad un bambino che viveva nelle torri di via Torino con molti fratelli. Un’altra volta, per festeggiare la fine dell’anno scolastico, una classe di cui conoscevo diversi ragazzi pensò bene di buttare tutti i banchi dalla finestra del terzo piano. Il primo giorno di scuola al Fermi, la prof di inglese ci chiese da che scuola venivamo. Iniziarono a rispondere quelli dei banchi davanti: le Farini, le Pepoli, le Rolandino. La prof era entusiasta, poi man mano si raffreddò: quando Rita le disse che veniva dalle Guercino restò indifferente. Restavamo solo Sergio ed io, e quando rispondemmo che venivamo dalle Graziano la prof fece un balzo all’indietro come per difendersi. Tutto questo per dire che insomma, non è che vivessimo nella bambagia. Eppure, non osavamo entrare al Pilastro. Soprattutto in bicicletta, avevamo paura, perché se ti fermavano i pilastrini, lasciavi lì la bici e poi tornavi a casa a piedi, c’era poco da fare. Ho un vago ricordo di un paio di incursioni in bici al Pilastro, vissute col cuore in gola: appena vedevo un crocchio sospetto, via in bici pedalando a razzo. Piani urbanistici sbagliati avevano creato luoghi dove si concentrava il disagio, i quartieri-ghetto della Bologna di allora. Che contemporaneamente passava per città modello, col bus gratis in alcune fasce orarie, e quando andavi a votare sapevi già chi avrebbe vinto le elezioni.
A distanza di quarant’anni, il Pilastro è irriconoscibile. Ci vado a fare la spesa, ci ho accompagnato mio figlio a calcio, vado spesso in pizzeria alla Fattoria, ho diversi amici che ci abitano. E’ un luogo assolutamente vivibile, si è trasformato. Cerco di andare ogni anno alla commemorazione dei tre carabinieri uccisi il 4 gennaio, prima alla messa a Santa Caterina da don Marco e poi alla lapide. Ogni tanto, come oggi, ci passo per fare memoria di un evento tragico che è diventato un pezzo dell’identità di questo luogo. Ma la colpa di quel delitto non è del luogo, e la mano omicida che ha trucidato quei poveri ragazzi che avevano solo la colpa di fare il proprio dovere e di proteggerci, ha ucciso qui al Pilastro come a Castel Maggiore e in altri posti. Il Pilastro di oggi è tutt’altro. Questo non vuole dire che non ci siano problemi, come in altre zone del centro e della periferia, e che non si possa fare di più per aumentare ancora la sicurezza. E dobbiamo farlo. Ma con la coscienza che stiamo parlando di un luogo molto distante dai problemi di un tempo, e che la cosa più urgente e seria è evitare di ripetere l’errore di creare dei ghetti, di qualunque genere. No ai ghetti, no al razzismo, sì ad una politica intelligente e lungimirante, sì all’equilibrio fra diritti e doveri. Emilia-Romagna regione dei diritti e dei doveri, come è scritto nel programma di Stefano Bonaccini. Andiamo avanti.