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Chi sono

Chi sono, da dove vengo, cosa penso e perché mi sono impegnato in politica

(Qui mi racconto, in un pezzo che ho scritto nel 2008. Se stai cercando una biografia/curriculum è in un’altra pagina)

In fondo sto soltanto provando a scalare la mia montagna

Una delle mie grandi passioni è l’alpinismo. Non a livelli esagerati, intendiamoci: non ho mai arrampicato in artificiale; ferrate sì, anche difficili, salite su roccia e su ghiacciaio finché si vuole, ma sempre nell’ottica di un rapporto naturale con la montagna che sto salendo.

Sull'Ortles nel 2006Per salire in cima ad una montagna occorre fare i conti con i propri limiti fisici, con la lunghezza del cammino e l’altitudine, con le difficoltà tecniche che possono variare fortemente in ragione della stagione e delle condizioni meteorologiche. Serve sapere rompere il fiato, non avere paura della fatica, cercare la continuità del passo, alimentarsi correttamente, riconoscere le insidie e scegliere se vale la pena aggirarle o affrontarle, mantenere il controllo della situazione senza lasciare che l’agitazione confonda i pensieri, scegliere i compagni di salita e fare squadra con loro. Ci vuole capacità, umiltà, tenacia e testa ma anche tanto cuore: non si può salire su una montagna se non si sa amare. Anche perché la remunerazione che attende sulla cima, quando lo sguardo abbraccia l’orizzonte e si percepisce una sintonia particolare con il creato, è un’emozione che parla direttamente al cuore, che sovente fatica a contenerla.

Trovo che scalare una montagna sia una formidabile metafora della vita.

Vista dalla cima dell'Ortles Verso la cima del Cevedale Veduta dalla cima del Vioz Verso la cima della Presanella Sulle Pale di San Martino Verso la cima dell'Ortles

La mia base di partenza

Sono nato a Bologna nella prima metà degli anni ‘60, figlio del baby-boom e di genitori che venivano da luoghi e storie molto diverse, ma che avevano scelto di venire in questa città per costruire la loro famiglia. Così, senza conoscere nessuno: solo lui, mio padre, figlio di contadini del Cilento profondo, che aveva sudato per studiare e si era laureato mentre lavorava come cancelliere; e lei, mia madre, genovese, che lo aveva conosciuto mentre ancora andava a scuola. Ricordo i miei genitori non (solo) per affetto, ma per riconoscere che a loro devo molte delle motivazioni che poi mi hanno portato a impegnarmi in politica.

Il mio nonno paterno, che si chiamava come me, a tre anni lavorava già: badava le pecore, lontano da casa, mangiando pane nero e latte. Scarpe grosse e cervello fino, nonché fibra d’acciaio, era diventato orfano giovanissimo, aveva visto i suoi fratelli partire per l’America, si era fatto due guerre, aveva preso la terza elementare ed era sopravvissuto senza cure adeguate perfino ad una peritonite. Aveva le idee chiare: suo figlio avrebbe studiato. E a mio padre ha comunicato due valori fondamentali: impegnarsi senza arrendersi mai e l’onestà ad ogni costo. Quando mio padre si è laureato, nel paesino d’origine gli sarebbe spettato di diritto il titolo di “don”: era passato di grado. Il nonno forse avrebbe apprezzato ma mio padre non ha mai voluto, e anche per questo tutti gli volevano bene.

Mio padre ha svolto un lungo ed onorato servizio come dirigente dei telefoni di stato. Molto apprezzato per la sua competenza giuridica, è però progredito in carriera assai più lentamente di quanto avrebbe potuto perché di un’onestà intransigente. Per capirci, invece di buttare via le buste della posta in arrivo le apriva col tagliacarte per usarne l’interno per prendere appunti. Così, quando c’era un concorso da fare ed era nella commissione d’esame, se anche gli segnalavano i raccomandati di turno lui comunque non stava al gioco. Poi pagava dazio quando veniva il suo turno di essere promosso: lui sapeva il perché e lo accettava come un prezzo da pagare, ma ancora oggi mi chiedo quanta amarezza gli siano costate le ingiustizie subite.

Mia madre invece, accogliente come sa essere solo una mamma, è stata fondamentale dal punto di vista affettivo. Ma proprio perché la comunicazione con lei è sempre stata meno razionale e più empatica, alcune delle cose che mi ha trasmesso sono cablate in profondità e non possono essere facilmente disattivate. In particolare, la sua viscerale contrarietà ad ogni forma di peccato che le deriva da una profonda religiosità ha ulteriormente rafforzato l’orientamento verso l’onestà e la giustizia. Per questo ogni tanto le dico scherzando che più che senso del dovere la mia è una scelta di comodo: se non cercassi sempre onestà e giustizia avrei forse dei vantaggi, ma mi condannerei da solo a lunghe notti insonni e tormenti interiori.

Così mio padre mi ha comunicato il senso del dovere e dell’onestà a tutti i costi, e l’importanza della grinta e della competenza per farsi strada in base al merito. E a mia madre devo invece il profondo senso di indignazione che mi pervade ogni volta che mi trovo di fronte a cattiverie gratuite, disonestà intellettuale o la pretesa di far passare come legittimo ciò che è invece ingiusto e sbagliato.

A 5 mesi (1963) A 5 anni (1967) A 16 anni, durante gli anni di liceo (1978) Il giorno della laurea in matematica (1985)

L’Italia è un sistema da sbloccare

L’Italia è un paese bloccato. Tutti lo dicono, al punto che è diventato ormai un luogo comune. Ad essere bloccato non è solo il sistema politico: se fosse così, si potrebbero attingere altrove risorse capaci di dare un colpo d’ala e liberarci dalla secca. Ma è il sistema-paese intero ad essere bloccato. Lo si capisce, prima ancora che dalle disfunzioni, dalla mancanza di un obiettivo condiviso.

Pensiamo all’Italia del dopoguerra, dove c’era uno scopo comune: la ricostruzione. E a prezzo di grandi sacrifici, i nostri padri e i nostri nonni ce l’hanno fatta. La Spagna degli anni ’80, finalmente libera dalla dittatura, voleva con tutte le sue forze recuperare il tempo perduto: oggi ci sta superando. La Germania degli anni ’90, ha voluto cogliere al volo l’opportunità del crollo del muro per riunificare l’Est all’Ovest. Il costo finanziario dell’operazione era smisurato e i tedeschi lo stanno ancora pagando, ma è chiaro che ne valeva la pena. Oggi si discute dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Finirà per entrare? Io dico di sì. Sbaglia chi pensa che dipenda dalle nostre decisioni: dipende anzitutto da loro, e il popolo turco vuole davvero l’Europa.

Non sto parlando di ciò che pensa la classe dirigente, ma dell’intero paese. In questi esempi che c’è un chiaro obiettivo condiviso, che coinvolge le diverse classi sociali e le diverse parti politiche, fornendo le motivazioni per impegnarsi e fare sacrifici. Non solo: da un lato crea le condizioni per una collaborazione fra maggioranza e opposizione, dall’altro definisce il metro di misura, un giudizio di efficacia, che motiva il cambiamento e il ricambio della classe dirigente.

Per questo quando incontro dei giovani, prima di parlare di ricambio generazionale, di nuova  politica, delle sfide da affrontare e dei pesi che ci frenano – tutti temi sui quali li trovo sempre reattivi e partecipi – chiedo quale scopo comune secondo loro dovrebbero avere gli italiani. Quale “mission” per il Paese? A questa domanda restano muti: per lo più, mi dicono che non ci avevano mai pensato. Non avevano mai nemmeno percepito che il problema esistesse.

Senza uno scopo comune emergono gli interessi particolari, prevale la difesa di ciò che si ha, il timore di perdere qualcosa, di essere costretti a fare passi indietro. Ognuno si preoccupa dei suoi diritti e privilegi, piccoli o grandi che siano, incurante del peso che la loro tutela pone sulla collettività. Naturalmente riconosce agli altri il diritto di fare altrettanto. La filosofia è: ognuno può difendere il proprio orticello, basta che a me non tocchino il mio. Se il Presidente del Consiglio ha molti interessi personali da difendere non è un problema: basta che anch’io possa difendere i miei.

La risultante di questo groviglio di piccole e grandi rendite di posizione è un sistema altamente ingiusto ed inefficiente. Tutti lo sanno, ma nessuno vuole essere il primo a rinunciare a qualcosa. Le lamentele vengono indirizzate su concetti impersonali come il degrado e l’insicurezza o su chi non può difendersi come gli immigrati. Chi vuole che nulla cambi, cavalca la paura: paura di tornare indietro, di perdere qualcosa, che ci portino via del nostro. E così non ci rendiamo conto di ciò che accade, del mondo della ricerca che fugge dall’Italia, delle imprese che vanno a produrre in Asia, della Cina che si sta comprando l’Africa, e così via.
Il nostro declino non è la causa della paura, ma una sua conseguenza.

Con la matematica non si scherza

Non è semplice dire perché ho scelto di laurearmi in matematica, ma certo ha a che vedere con la purezza del pensiero. Se chiedete ad un avvocato un parere su una questione è facile che vi risponda con un “dipende”; approfondendo il tema potrà spiegarvi che vi sono sentenze che dicono cose diverse e che tutte fanno giurisprudenza. Anche se sono diverse o addirittura opposte e perfino se sono sbagliate. In matematica non è così: se due persone sostengono tesi opposte, è certo che uno si sbaglia. Attenzione: non è sicuro che l’altro abbia ragione, perché potrebbero sbagliarsi entrambe. Ma non ci sono tante verità, ce n’è una e non bisogna inventarsela, soltanto cercarla.

Per questo ho dato una piccola delusione a mio padre iscrivendomi al liceo scientifico e non al classico come lui avrebbe preferito. Forse gli assomigliavo troppo per non sentire il bisogno di differenziarmi da lui, e la scienza – insieme al sense of humour – è stata la mia diversità. E ancora, dopo aver dimostrato al liceo di sapermela cavare come piccolo leader studentesco, ho stupito quanti mi pronosticavano un futuro in politica e mi consigliavano di iscrivermi a legge o scienze politiche: ho scelto la matematica.

La matematica è più della bellezza di volare alto parlando di coniche invece che di casi particolari come ellissi, parabole o iperboli. È più dell’addestramento alla logica ferrea della razionalità, motivo per il quale si dice che un matematico può lavorare in ogni settore, perché non gli viene dato il corredo delle soluzioni bensì la forma mentis con cui trovarle. È più dell’asperità della salita su terreni disseminati di derivate parziali, equazioni integrali, generalizzazioni infinito-dimensionali degli spazi euclidei. La matematica è ricerca della perfezione, della purezza del pensiero, e non a caso approfondendo gli studi si arriva ad un punto dove il confine con la filosofia è molto sottile. Lì c’è una biforcazione: i contemplativi proseguono lo studio teorico, i pragmatici scendono a valle a cercare una materia su cui sperimentare ciò che si è visto da lassù. Io sono sceso a valle e ho scelto l’informatica.

L’informatica è una scienza (in un certo senso) meno esatta: riguarda la produzione di numeri e il reperimento di dati attraverso macchine e sistemi che per quanto potenti hanno chiari limiti di cui occorre sapere tenere conto, ed è fortemente orientata al risultato. Un matematico che fa l’informatico è diverso da un ingegnere o da un laureato in scienze dell’informazione: è vero che si sporca le mani col codice, ma in quel codice cerca la perfezione del pensiero. Se non avessi paura di esagerare con le parole direi che cerca la verità. È come un pilota di caccia che si mette a fare il pilota civile: porta i passeggeri a destinazione ma nei suoi occhi c’è una dimensione ulteriore.

La ricerca della verità non è semplicemente la nostalgia dell’emozione che si prova in vetta o una modalità di approcciare la soluzione dei problemi: è anche il presupposto del confronto costruttivo, del dialogo che fa crescere. Mi fa star male ad esempio vedere scienziati che dicono cose opposte senza sentire il bisogno di confrontarsi e cercare una sintesi rispettosa della verità: pensate ad un tema come l’elettrosmog, in cui non è difficile trovare “esperti” disposti ad affermare tutto e il contrario di tutto e nessuno (a parte i cittadini che si sentono presi in giro) sembra percepire il problema. In nome di un malinteso concetto della libertà, è diffusa nella società l’idea che ci si debba semplicemente limitare a prendere atto del fatto che ognuno può pensare e dire quel che gli pare. Tutti hanno ragione, nessuno ha ragione. In politica invece lo schema è diverso, ma il risultato è lo stesso. Funziona così: “noi” abbiamo ragione, “loro” torto. Sempre, su tutto. Trovatemi un politico disposto ad ammettere che il suo avversario su un singolo tema aveva visto giusto e lui aveva sbagliato. Non lo troverete. Come dicevo, il risultato è lo stesso: tutti hanno ragione, nessuno ha ragione. Per forza poi gli elettori hanno l’impressione che i politici siano “tutti uguali”.

La politica per me è come l’informatica, ossia una valle in cui provare a sperimentare il rigore logico e la ricerca della verità. Un campo in cui cercare strade e risultati che riflettano il più possibile la nitidezza del pensiero. Per questo fatico a tollerare la diffusa abitudine di chi pontifica su cose che conosce a malapena oppure è disposto a negare l’evidenza pur di affermare la propria parte politica. Non sopporto che il merito delle questioni finisca quasi sempre in secondo piano, che più dei risultati conti l’apparenza o quel che scrivono i giornali. Ma che in questo quadro non vengano promossi i migliori o che non valgano più di tanto i risultati oggettivi ottenuti nel merito dei problemi non è semplicemente una cosa difficile da digerire per un matematico come me.
È per l’appunto il problema chiave che dobbiamo risolvere.

All'istituto Giovanni XXIII (1980) Con i nonni dell'istituto Giovanni XXIII (1980) Al parco coi ragazzi dell'oratorio (1981) Allenatore nella PGS Petroniana(1981) Allenatore nella PGS Bellaria (1983) Educatore di gruppi giovani (1989)

Senza meritocrazia non c’è vera solidarietà

Primo, l’Italia perde colpi in attacco, ossia là dov’è la frontiera dell’economia mondiale: la capacità di innovazione e di ricerca. La filiera scuola – università – formazione – ricerca – produzione va rianimata, non mi viene un’altra parola. Questo significa certamente investirci risorse, ma lo dicono tutti e non lo fa nessuno. Anzi, è ormai un luogo comune lamentarsi della fuga dei cervelli, invocando denari che poi non arrivano mai. Io dico invece che il primo problema è spendere bene le poche risorse che abbiamo.

Secondo, l’Italia corre dei rischi in difesa, ovvero rischia di vedere affondare ciò che di meglio ha saputo produrre: il sistema pubblico di welfare solidaristico, a partire dal servizio sanitario,  dall’assistenza sociale, dallo stesso sistema educativo. Anche qui servono risorse, ma anche qui il primo problema che abbiamo è quello di vederle spese nel modo migliore.

In entrambi i casi, la questione centrale è riuscire a premiare il merito e non la rendita di posizione. Mettendo al bando, con coraggio e decisione, le piccole e grandi ipocrisie che vedono tutti predicare il merito e razzolare sulle rendite di posizione. È la questione centrale in tutti i campi, non solo in politica.

Da un lato infatti, a dispetto di tante belle parole, conta spesso di più il cognome che porti delle idee o delle capacità. In quale altro paese del mondo l’associazione dei giovani industriali coincide quasi del tutto coi figli dei vecchi industriali? Succede anche perché i lavori li ottengono più facilmente quelli coi contatti giusti rispetto a quelli bravi ma con pochi agganci. A quel punto le banche neanche volendo (e sapendolo fare, del che dubito) potrebbero basarsi sulla bontà del progetto industriale per prestare soldi: se la buona idea conta meno delle spalle coperte, perché cambiare?

Dall’altro, la difesa dei cosiddetti diritti acquisiti è quasi sempre acritica. Ci sono insegnanti di ruolo e precari, insegnanti bravissimi e incapaci, tutti lo sappiamo. Ma, nel caso, chi ha la precedenza fra un precario bravissimo e uno di ruolo incapace? Nessun dubbio, quest’ultimo. Continuiamo a fare concorsi universitari, che si finge ipocriticamente vadano a premiare solo i meritevoli, per sfornare intoccabili accademici che potranno autonomamente decidere se impegnarsi (ce ne sono ancora tanti per fortuna) oppure no, e in quest’ultimo caso comunque non cambierebbe niente. Certo, se qualcuno ruba può intervenire la magistratura, ma se è soltanto un incapace? Pensatelo di un medico, e immaginate di esserne il paziente…

La meritocrazia viene avversata da chi da destra auspica il crollo del sistema pubblico di welfare per sostituirlo con meccanismi privatistici che privilegino i più forti a scapito dei più deboli. Ma anche da sinistra, dove molti pensano che introdurre criteri di merito sia un modo di discriminare fra lavoratori, di mettere zizzania, indebolire la solidarietà, un modo di ragionare “da padroni”. Invece è vero il contrario: senza valutazione del merito non c’è vera solidarietà ma soltanto un miope buonismo di maniera che finisce per rendere sfuocati anche valori come l’universalismo dei servizi essenziali che invece dovrebbero essere scolpiti nel marmo.

Senza premiare davvero il merito, l’attacco stenta e la difesa arranca. Il prezzo lo paga subito chi il lavoro non l’ha ancora e chi lo perde. Lavoratori precari fino a quarant’anni, stabilmente a carico di genitori e nonni (quelli che li hanno), con un enorme rebus aperto su questioni come casa, famiglia e figli. E cinquantenni finiti, che passano da un lavoretto all’altro aspettando la pensione. Ma alla fine il prezzo lo pagheremo tutti. Intanto, infuria il dibattito se i dipendenti pubblici nascondano schiere di fannulloni oppure se siano un corpo sano con al più qualche rara mela marcia. E nessuno ha il coraggio di introdurre meccanismi per premiare chi lavora bene e retrocedere chi non fa il suo dovere.

In questo quadro, la politica è paradossalmente il settore dove più facilmente potrebbe innestarsi un processo di rinnovamento: in politica non ci sono i concorsi, ma le elezioni; gli incarichi sono a tempo, non a vita e a prescindere dai risultati. Basterebbe “solo” affidare agli elettori la scelta delle persone e informarle correttamente sul loro operato perché possano premiare col loro voto solo chi davvero merita.

Purtroppo, assistiamo invece ad un peggioramento dei meccanismi di selezione della classe dirigente: le nuove leggi elettorali hanno consegnato ai vertici dei partiti anche la scelta dei parlamentari, e le preferenze sono ancora previste solo nelle comunali e nelle regionali. E la comunicazione, oltre ad essere assai poco indipendente, non appare del tutto interessata (eufemismo) alla ricerca dell’obiettività.

Sono però convinto che l’unica strada vera per il cambiamento sia quella di premiare le persone che, nelle diverse forze politiche, rappresentano competenza, pulizia, rinnovamento. La meritocrazia è questo, la capacità di distinguere caso per caso. Lo dico anzitutto al mio partito, che sta attraversando un momento tutt’altro che esaltante: se mettessimo il merito alla base della nostra politica (e dei nostri metodi, anche interni), sarebbe davvero l’inizio di una rivoluzione.

In Irpinia subito dopo il terremoto (dicembre 1980) In Irpinia subito dopo il terremoto (dicembre 1980) In Irpinia subito dopo il terremoto (dicembre 1980) In Irpinia l'estate dopo il terremoto (agosto 1981) In Irpinia l'estate dopo il terremoto (agosto 1981) In Irpinia l'estate dopo il terremoto (agosto 1981)

Volontario è esperienza della gratuità

Conosco tanti ragazzi che come me si sono ritrovati a tirare calci al pallone con gli amici in un campetto dell’oratorio. Tanti ci passano ore felici divertendosi, alcuni si fermano per dedicare un po’ del proprio tempo agli altri: negli oratori salesiani funziona così, i più grandi si prendono cura dei più piccoli. È capitato anche a me, per tanti anni, ed è stata certamente una bella esperienza di volontariato, in cui comprendere la dimensione della gratuità, acquisire una chiave di lettura che poi rimane per sempre.

Porto con me i visi dei ragazzi che ho conosciuto all’oratorio, quelli che hanno giocato con me negli anni in cui ho fatto l’allenatore di calcio, gli anziani dell’ospizio che per anni ho frequentato come volontario, i giovani cui mi sono dedicato durante il mio servizio civile e quelli del gruppo giovani che ho seguito negli anni successivi. Per certi versi potrei aggiungere che anche fare il genitore ha in sé la dimensione del volontariato, ma credo sia vero solo in parte. A differenza di un legame d’amore su cui sei chiamato ad operare una scelta, quello coi figli puoi solo riconoscerlo come vero: pensando ai miei quattro figli è così che lo sento, come se fosse cablato dentro.

Ma l’esperienza che più mi ha cambiato la vita e fatto vedere il mondo in modo diverso è stata quella dell’Africa. Per questo non posso che essere grato a quel prete, un secondo padre per me, che a vent’anni mi ha trascinato in Rwanda a passare due estati. Vai là pensando di essere d’aiuto, e in effetti dal punto di vista pratico lo sei anche, ma in realtà ricevi molto di più di quello che dai. Comprendi che viviamo in un villaggio che si chiama pianeta Terra, e che il problema di fondo non è quello che c’è scritto sul passaporto. Conosci persone che hanno avuto semplicemente la ventura di nascere ad una diversa latitudine confrontarsi con problemi che noi qui non riusciamo nemmeno ad immaginare, e tocchi con mano che la felicità non è possedere tutto quello che qui a noi appare semplicemente indispensabile. A dispetto di un’ingiustizia che urla al cospetto di Dio, incontri occhi che ti penetrano dentro e che non puoi più dimenticare.

Non è una cosa semplice da spiegare, e solo chi ne ha fatto esperienza sa bene cosa intendo. Di recente mi è capitato di andare ad un incontro con un gruppo di medici e chirurgi plastici bolognesi che si recano in paesi remoti ad operare persone che laggiù non sono ancora in grado di curare. Mentre li ascoltavo mi era del tutto evidente che, sia pur in luoghi, tempi e campi diversi, avevamo sperimentato la stessa dimensione. Mentre guardavo le loro diapositive non potevo fare a meno di rivedere i volti dei giovani rwandesi che avevo incontrato. Molti di loro sono morti nel genocidio del 1994. A centinaia, forse migliaia, si erano rifugiati nella chiesa della missione. Sono arrivate le brigate della morte, che hanno preso via di forza e messo sotto chiave il missionario. Poi hanno ucciso tutti quelli che erano in chiesa, a colpi di machete perché avevano scarsità di armi e munizioni. Siccome era un compito faticoso e dentro la chiesa erano in tanti, ci hanno messo tre giorni a finire il lavoro.

Ora il nostro posto è qui, e nessuno può pensare da solo di risolvere i problemi del mondo. Ma credo sia importante averne un’idea ed anche avere sperimentato in prima persona la dimensione della gratuità. Versare volontariamente una goccia del proprio sangue come piccolissimo contributo a bilanciare gli oceani di ingiustizia che affliggono il nostro pianeta non è in sé risolutivo per il pianeta, ma è fondamentale per il nostro cuore.

Se devo andare a farmi curare da qualcuno, è importante che il medico sia bravo. Ma se è una persona che ha sperimentato la dimensione del dono gratuito secondo me ha una marcia in più. Che i nostri medici vadano in missione è quindi un aiuto non solo a pazienti lontani ma anche a quelli vicini, che poi potranno essere curati da persone che dal punto di vista umano hanno preso coscienza di un’altra dimensione.

E a proposito di servizio civile, sono sempre più convinto che si sia persa un’occasione storica, in occasione della fine della leva obbligatoria: sarebbe stato molto meglio conservare l’obbligo di un periodo di servizio, a scelta fra civile e militare. Non per avere manodopera a basso costo, come a torto furono in alcuni casi considerati gli obiettori di coscienza, ma per far maturare cittadini capaci di cogliere l’importanza della dimensione del dono.

Rwanda (1982), un mercato Rwanda (1982), un bambino Rwanda (1982), cure mediche Rwanda (1983), bambini Rwanda (1983), bambini Rwanda (1983), gruppo con ragazzi

Senza la dimensione del dono non c’è vero progresso

Bologna è splendida quando prevale la sua vena di generosità. Crocevia di comunicazione e posto di incontro da sempre, perfino nei luoghi comuni la città viene identificata con la sua giovialità e capacità di accoglienza. Una generosità che non vuol dire mancanza di furbizia, ma al contrario muove dall’intelligenza consapevole che si può ottenere molto di più dallo stare bene insieme rispetto ad uno scontro fra egoismi diversi che alla fine lascia tutti più poveri.

È bello incontrare persone che spingono questa generosità fino alla dimensione del dono. Chi fa il donatore di sangue, il volontario nelle ambulanze, aiuta un vicino di casa in difficoltà, dona parte del suo tempo per un’attività di volontariato, sa di cosa parlo. Come sa di cosa parlo chi ha preso un’auto, un treno o un aereo per andare a prestare volontariamente la sua opera nel luogo di un terremoto o in un paese lontano dove le persone hanno molte meno cose di noi.

La dimensione del dono ci rende capaci di fare sacrifici non finalizzati al nostro arricchimento o realizzazione personale, ma al bene comune. Se vogliamo avere la speranza di fare ripartire sul serio il nostro paese bloccato, dobbiamo quindi ricominciare anche da qui, dalla gratuità. Dobbiamo darci un obiettivo comune, comprendere la strada per raggiungerlo, ed essere disposti a fare ognuno la nostra parte di sacrifici per andare in quella direzione.

Anche per puntare alla valorizzazione del merito occorre una dimensione di gratuità. In una economia di mercato finalizzata al progresso e alla produzione industriale, non ce ne sarebbe bisogno: la meritocrazia sarebbe la scelta più logica per essere competitivi nello scenario mondiale. Ma in Italia la scelta del merito non è al momento quella più conveniente per fare carriera, come ho ampiamente sottolineato: per questo ci vuole uno spirito da volontario per cominciare ad affermarla.

Parlo anche per esperienza personale. Il merito al centro del cambiamento non è solo qualcosa che predico per altri, è anche il principio base che ispira il mio impegno in politica. In una politica che fra una persona poco capace ma fedele ed una capace ma libera finisce sempre per premiare la prima a scapito della seconda, è faticoso e nell’immediato poco remunerativo basarsi sul merito. Faticoso perché devi resistere a sirene più o meno suadenti. Poco remunerativo, perché scegliere in base al merito non prevede di ricevere automaticamente qualcosa in cambio in termini di consenso elettorale.

In tutti questi anni non sono mai dovuto scendere a compromessi con la mia coscienza. Fra la strada comoda e quella giusta, ho sempre cercato di prendere la giusta. Ho preso in cambio delle sonore legnate, la rassegna stampa è lì a dimostrarlo. E ho certamente perso delle occasioni per la mia autopromozione.

Ma è anche la cosa che mi ha dato più soddisfazione in questi anni di lavoro. È gratificante incontrare cittadini che ti ringraziano perché hai fatto qualcosa che per loro ha valore: io l’ho fatto perché credevo fosse giusto farlo, non sempre capita che qualcuno apprezzi, ma è bello quando succede. Oppure vedere lo sguardo stupito di una persona che hai appena scelto per un incarico, che si chiede come mai, con l’incredulità che possa accadere ciò che dovrebbe accadere sempre: ti ho scelto perché penso che te lo meriti. Quante energie si liberano in questo modo! Quante persone ci sono nei luoghi di lavoro che fanno il loro dovere ed hanno visto passar loro davanti schiere di raccomandati. Se le sai riconoscere e valorizzare, possono dare tantissimo. E io devo ringraziare di cuore tante di queste persone, perché senza di loro sarei riuscito a concretizzare molto meno di quel che invece sono riuscito a fare.

Io la politica la faccio così non solo perché è l’unico modo in cui potrei farla, ma anche perché sono convinto che sia l’unica strada che abbiamo per provare ad affrontare e risolvere i problemi che abbiamo di fronte. Per quanto possa sembrare strano, la società capitalista in cui viviamo potrà sopravvivere solo dando spazio a valori che oggi le appaiono estranei come quello della gratuità. Ed è nell’ottica di una maggiore giustizia che possiamo fare ripartire il nostro paese, abbandonare il declino che ci porta ad essere sempre più poveri e più egoisti per scommettere che è possibile invece diventare al tempo stesso più generosi e più ricchi. Ed è per questo che conservo la speranza che questo modo di fare politica possa infine essere riconosciuto ed apprezzato.

Questo discorso vale naturalmente anche per la nostra città: se vogliamo che Bologna guardi al futuro con fiducia, non dobbiamo cedere alla tentazione dell’egoismo e fare invece rivivere fino in fondo la capacità di generosità e di impegno che è nel nostro codice genetico.

Sulla cima della Tour Ronde (1984) Sulla cima del Monte Bianco (1985) Sulla cima della Presanella (1985) Il Sella visto dalla ferrata delle Trincee (2002) In ferrata sul Brenta (2004) Il lago di Molveno visto dal Brenta (2003)

La mia montagna

CevedaleÈ la mia montagna. Non mi interessa fermarmi a ingozzarmi di polenta e spezzatino nella baita a valle: non è il potere per se stesso (o per me stesso) a motivare il mio impegno in politica. Io voglio salire, perché so e cerco ciò che si trova più in alto. Conosco la fatica, la riconosco come compagna di viaggio: il sudore che mi cola lungo le gote, il passo che cerco di tenere costante, il respiro che cerco di disciplinare, l’importanza di mantenere lo sforzo aerobico perché i muscoli cominciano ad indurirsi, devo controllare la sete e anticipare la fame. Cammino leggero nonostante gli scarponi e lo zaino, i piedi sfiorano il terreno scegliendo ogni metro gli appoggi migliori. Il percorso è una parte fondamentale del cammino: non solo perché non è vero che il fine giustifica i mezzi, ma anche perché il percorso è già un pezzo essenziale della meta. Per questo non invidio quelli che si fanno portare in alto dalla funivia.

Eccoli lì, appoggiati alla balaustra del rifugio con i loro completi alla zuava nuovi di negozio, i loro scarponi lucidi senza un grammo di polvere. Mi guardano dall’alto in basso, loro sono già arrivati: per la precisione sono nati già arrivati, oppure vivono come una loro personale sagacia la capacità di essere saliti sulla funivia giusta. Io arrivo dal basso, sporco e logoro nei miei vestiti che hanno vissuto già tante salite, gli scarponi impolverati per i tanti chilometri percorsi. Mi avvicino piano e senza rallentare, alzo la testa e li guardo negli occhi. Non c’è bisogno di dire nulla: io non cerco scorciatoie, non mi interessa diventare come voi. Non è disprezzo il mio: voi siete legati a chi vi ha venduto il biglietto, con la funivia siete arrivati e con la funivia dovrete scendere, non potete cambiare nulla. Siete i padroni del rifugio, attori principali ma non protagonisti. No, quella delle scorciatoie è la vostra montagna, non la mia.

Io vado avanti, con le mie forze. Incrocio lo sguardo dei miei compagni di salita. Sono pochi, ma di loro mi posso fidare. Sul ghiacciaio ci leghiamo, perché se uno incontra un crepaccio gli altri possano tenerlo su: è la regola della montagna, e bisogna fidarsi gli uni degli altri, la vita dei miei compagni è nelle mie mani, la mia è nelle loro. Ogni tanto incrociamo qualche altro gruppo. So cosa cercare, prima di tutto guardo i vestiti e gli scarponi. Se sono troppo belli e troppi nuovi è probabile che sia un gruppo salito in funivia che prova a salire in cima: meglio diffidare. Invece, se i vestiti sono vissuti allora si può provare a fare un pezzo di strada insieme, e la salita è più bella. Intanto vado avanti, la salita si fa dura. Sento i chili di troppo che mi porto dietro, l’altitudine comincia a farsi sentire. Lo sguardo abbraccia un panorama ormai ampio, ma il mio respiro è affannato, fa freddo, le nuvole oscurano il cielo, la cima ancora non si vede: potrebbe essere vicina, subito dietro allo spuntone che ne nasconde la vista, oppure essere ancora lontana. La montagna condivide il mio affanno, il cervello ha ormai funzionalità limitate all’orientamento, qui serve soprattutto il cuore per andare avanti. È il momento di stringere i denti, chiamare a raccolta le forze, prepararsi ad una nuova fatica. Verso la cima. Indietro non si torna.

Verso la cima della Presanella (2005) Dalla cima del Cevedale (2006) Vista sul gruppo Cevedale dal Lago Nero (2004) La via verso la cima dell'Ortles (2006) In azione nella discesa dall'Orles (2006) Passeggiata ai piedi della Presanella (2006)

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