I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (DNA) sono stati al centro della recente seduta della commissione Salute dell’Assemblea legislativa. In particolare, il vertiginoso aumento dei casi: una crescita epidemiologica senza precedenti. Sono 2008 le persone che nel 2021 hanno fatto riferimento ai Centri di salute mentale (CSM) e alla Neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza (NPIA) regionali con disturbi di questo tipo. Il 70% dei casi è in un’età compresa tra i 12 e i 30 anni. L’aumento dei casi per quanto riguarda la neuropsichiatria infantile è del +141% nell’arco degli anni 2013-2020 e del +31% dal 2020 al 2021. Non c’è un altro ambito sanitario che abbia avuto una simile crescita. Inoltre spesso si tratta di casi gravi: nel 2021 i ricoveri sono stati 1248, e il 55% dei ricoveri avviene nella fascia d’età 11-30 anni. Inoltre la prevalenza del genere femminile è fortissima: le ragazze sono il 90%.
Sono dati allarmanti che aiutano a capire l’entità del problema. I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono, infatti, catalogati fra le patologie mentali severe (severe mental illness è la definizione del DSM-5) e non di rado conducono alla morte. Sono caratterizzati da un comportamento alimentare disfunzionale, un’eccessiva preoccupazione per il peso e un’alterata percezione dell’immagine corporea. E sono patologie complesse, tanto da richiedere un approccio multidisciplinare, che si rivela fondamentale per la prevenzione e la presa in carico. Nella nostra regione esistono già dal 2009 i cosiddetti Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA, istituiti con delibera di Giunta regionale 1298/2009). Il PDTA agisce contemporaneamente su quattro livelli: 1) luogo di cura appropriato, 2) modello organizzativo multiprofessionale, 3) cartella clinica unica e 4) formazione comune degli operatori. I quattro livelli sono strettamente interconnessi.
Ad esempio, per quanto riguarda il primo e il secondo livello, gli interventi nutrizionali possibili in Emilia-Romagna – counseling, pasti assistiti, supplementi orali, nutrizione artificiale – sono presenti in tutti i tipi di luoghi di cura: ambulatorio/domicilio, day service/day hospital, ricovero ordinario, ricovero straordinario. Questo vuol dire un coinvolgimento di diversi professionisti in ciascun luogo: medici nutrizionisti, psichiatri, psicologi, neuropsichiatri infantili, pediatri, educatori, infermieri, dietisti. Se da un canto è normale che la nutrizione artificiale avvenga in ospedale, è notevole – e all’avanguardia – che possa avvenire anche a domicilio.
Due aree in particolare, quella psichiatrico-psicologica e quella di nutrizione clinica, si intersecano e snodano insieme il loro percorso, dall’ambulatorio all’eventuale ricovero. I professionisti coinvolti hanno competenze specifiche sul tipo di patologia e contemporaneamente devono avere a disposizione tutto il bagaglio terapeutico, perché i pazienti sono “fluidi” e vanno dai pasti assistiti, al counseling nutrizionale a interventi complessi come quelli della nutrizione artificiale. Il ricovero avviene solo nei casi gravi e non è finalizzato alla guarigione ma alla stabilizzazione delle carenze metaboliche. Lo scopo è avere continuità di cura: la presa in carico può avvenire dall’équipe DNA ospedaliera ma poi si trasferisce nell’équipe territoriale, in una fondamentale continuità di progetto. Ma il vero cambiamento di paradigma è rappresentato dalla rete di nutrizione preventiva e clinica (istituita con delibera di Giunta regionale 2200/2019), grazie alla quale comincia a esserci continuità tra prevenzione e intervento clinico. Le aziende ospedaliere faranno la loro parte, con tre percorsi di prevenzione da sviluppare: 1) sovrappeso/obesità, 2) malnutrizione per difetto 3) disturbi della nutrizione e dell’alimentazione.
La Cartella unica regionale elettronica, cosiddetta CURE, è il terzo tassello dei PDTA. È un’unica cartella clinica con un unico progetto condiviso tra ospedale, famiglia, territorio. Accedono diversi professionisti, dal dietologo allo psichiatra, e consente servizi di telemedicina. Al centro dell’attenzione è l’assistito, non i servizi, in una condivisione del percorso di cura che si rivela strategica. Va da sé che anche la formazione è strategica – e siamo al quarto e ultimo tassello dei PDTA: creare équipe multidisciplinari ha senso solo se questi professionisti parlano la stessa lingua.
Un ultimo affondo sulla preoccupante incidenza dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in età pediatrica e adolescenziale: è una patologia che sempre più si sta connotando con un esordio precoce e che rappresenta la seconda causa di morte negli adolescenti, dopo gli incidenti stradali. Se nell’età evolutiva il disturbo più diffuso è l’anoressia nervosa, negli ultimi anni si sta diffondendo una nuova patologia, ricompresa nel DSM-5 e denominata Arfid, ovvero Disturbi evitanti restrittivi dell’assunzione di cibo. Questi disturbi possono essere i presupposti per una patologia più strutturata come l’anoressia. Inoltre, sebbene manchi il connotato della dispercezione corporea, possono portare a evitare di assumere il cibo, con conseguenze metaboliche gravi che purtroppo sboccano nei ricoveri ospedalieri. La fascia d’età d’insorgenza degli Arfid è molto più bassa rispetto ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: i bambini possono avere anche tre/quattro anni. Va da sé quanto sia importante la formazione degli interlocutori che girano attorno al bambino: pediatra di libera scelta, scuola, società sportive. Tre istituzioni fondamentali per arrivare precocemente alla diagnosi. Oltre, naturalmente, alla famiglia. La Società italiana di pediatria ha emanato una sorta di questionario con cinque domande da fare ai genitori del bambino o all’adolescente, in modo tale da definire un quadro precoce di rischio. Lo stesso questionario potrebbe essere proposto ai pediatri di libera scelta. Così come uno strumento importante in mano ai pediatri potrebbe essere il bilancio di salute del bambino, dove individuare fattori di rischio da monitorare nel tempo, sperimentato nell’Ausl di Piacenza per i ragazzi di 11-12 anni.
Un’esigenza sempre più evidente è la necessità di prendere in carico anche le famiglie, nel senso di prendersi cura delle ansie familiari. È un ambito strategico che merita più risorse, come quello della formazione ai docenti. A scuola ogni singolo termine dev’essere misurato: una parola in più rispetto all’obesità può scatenare, su soggetti predisposti, una deriva verso la malnutrizione per difetto. Anche i regimi alimentari scelti per religione o per moda possono rappresentare una deriva verso il disturbo ossessivo. Un ruolo altrettanto importante lo svolgono gli allenatori: possono fare in modo che gli sport che presuppongono una certa forma fisica non ingenerino problematiche di tipo alimentare.
L’Emilia-Romagna è la regione più articolata a livello di strutture pubbliche dedicate ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione: ne abbiamo 16, ovvero il 32% di quelle presenti sul territorio italiano. Dal Ministero percepiamo un fondo annuale di circa 820mila euro. Ne avremo ulteriori 1.887.500,00, grazie a un progetto che ci consentirà di dotare di un PDTA tutte le Ausl della regione, di costruire un modello che riduca il più possibile il ricovero e sviluppi più ambulatori intensivi dove proporre interventi nutrizionali e psicologici integrati. Oltre a potenziare interventi di prossimità, aiutare attori fondamentali quali famiglie e associazioni a costituirsi in gruppi che supportino i professionisti nell’assistenza clinica, aumentare le sinergie tra pubblico e privato, meno presenti nelle strutture ambulatoriali.
Questo quadro è la sintesi di quanto emerso da una recente audizione delle commissioni IV e V in cui abbiamo ascoltato gli interventi di diversi relatori: il dott. Alessio Saponaro, la dott.ssa Marinella Di Stani, il prof. Giacomo Biasucci e il dott. Giuseppe Benati. Chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, cliccando sul nome del relatore può trovare le slide che ha presentato durante l’audizione, mentre qui trova le Linee di intervento sui DNA della Regione Emilia-Romagna.
Qualche commento in conclusione: al di là del buon lavoro che si sta facendo, credo sia giusto porsi delle domande sul perché di questa crescita del fenomeno dei DNA (lo dico tra parentesi: il fatto di aver cambiato la sigla rispetto alla precedente DCA – Disturbi del Comportamento Alimentare – non la trovo una cosa positiva). Perché è vero che la pandemia ha sicuramente influito sul problema, ma la pandemia può aver giocato un ruolo di accelerazione e non di causa. Occorre costruire un approccio epidemiologico adeguato a fronteggiare il fenomeno, cercando di intervenire sulle cause. E predisporre delle mappe territoriali sicuramente non è sufficiente, perché credo che contino più le frequentazioni che il posto in cui si abita. Ci sono dei veri e propri “focolai”, ovvero contesti che favoriscono il proliferare di queste patologie, che vanno individuati e su cui occorre agire nell’ottica della prevenzione. La recentissima denuncia di una ginnasta, ad esempio, è un allarme che va ascoltato e approfondito. Per prevenire i DNA dobbiamo quindi lavorare sul piano culturale promuovendo una corretta alimentazione e intervenendo nello specifico laddove possono innestarsi comportamenti emulativi o addirittura indotti che portano a disfunzionalità alimentari.
Sul fronte della cura certamente la diminuzione dell’età di esordio per questo tipo di disturbi va affrontata in modo adeguato. E i casi limite in cui la patologia porta vicino al rischio di morte sono ovviamente da seguire con la massima attenzione. Ma non dimentichiamoci dei casi in cui la patologia si cronicizza pur senza arrivare alle estreme conseguenze: spesso si tratta di persone che se la portano dietro per decenni e che rifiutano pervicacemente di curarsi, con famiglie disperate che non riescono a venirne a capo. È la fascia che rimane scoperta dagli strumenti legislativi vigenti, visto che i TSO possono essere effettuati solo quando c’è un grave pericolo imminente: anche loro non vanno abbandonati.