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Il finanziamento della politica è stato al centro di scandali nel corso del tempo ed oggetto di feroci discussioni, eppure sembra che se ne parli solo quando esplode un caso clamoroso, ossia quando si sconfina nella patologia. Nella apparente normalità, vale a dire nella fisiologia, è un argomento di cui nessuno pare occuparsi. Eppure io credo che agli elettori interesserebbe sapere chi finanzia i politici, pur in modo legittimo, e magari anche comprenderne i motivi. Gli strumenti ci sarebbero anche, ma vengono usati poco.
Ad esempio, la legge prevede che ogni anno gli amministratori pubblici rendano noti i propri redditi, e ogni anno escono articoli che ne riferiscono, spesso con titoli che parlano dei paperoni fra i consiglieri o gli onorevoli. Ma la legge prevede anche che vengano rendicontate le spese elettorali, dichiarando i finanziamenti ricevuti, eppure di questo si scrive molto meno. Oltretutto i nomi dei finanziatori vengono schermati, per motivi di privacy, nella pubblicazione dei dati online. Se io fossi un giornalista è la prima forma di trasparenza che chiederei ad un eletto, ma nessuno lo fa mai. Insomma, sembrano funzionare più le note di colore che le domande di sostanza.
Se ci si fosse presa la briga di dare un’occhiata alle dichiarazioni elettorali mie e dei miei colleghi eletti in Regione nel 2020, si sarebbe potuto verificare che la spesa media per la campagna elettorale dichiarata dai consiglieri eletti ha superato i 19 mila euro, con punte fino a quasi 48 mila. Fra le forze di opposizione gli eletti in Fratelli d’Italia sono quelli che hanno speso di più, con una spesa media dichiarata di oltre 31 mila euro, contro i 13 mila di media degli eletti nella Lega e cifre di molto inferiori nelle altre liste. Nel centrosinistra invece la spese media per gli eletti nel PD è stata circa 23 mila euro, quasi 26 mila per gli eletti di Coraggiosa, circa 16 mila per quelli nella lista Bonaccini ed 8 mila nei Verdi. Se qualche giornale avesse pubblicato qualche tabella, questi sarebbero numeri noti. E se qualcuno avesse mai chiesto ai finanziati di dare conto di chi sono i loro finanziatori, gli elettori saprebbero qualcosa in più. Così potrebbero avere una chiave di lettura diversa nel valutare i risultati ottenuti in termini di preferenze, tenendo conto anche delle cifre ricevute e spese nella campagna elettorale. Io a Bologna nel 2020 sono stato, con le mie 4264 preferenze, il fanalino di coda fra gli eletti nel PD, ma sono anche di gran lunga quello che ha speso meno (sotto i 4 mila euro) rispetto ai miei colleghi di partito che hanno tutti dichiarato fra i 9 e i 47 mila euro di spese.
Vengo allo specifico del Partito Democratico che, soprattutto a queste latitudini, ha ereditato meccanismi consolidati dalla tradizione PCI-PDS-DS, in cui il gioco di squadra (ovvero il peso del partito) contava molto rispetto agli sforzi dei singoli. In passato il partito, ossia chi lo dirigeva, era decisivo nel definire le chances di elezione dei diversi candidati, ad esempio stabilendo “opportunamente” l’abbinamento dei candidati coi circoli dei territori, oppure definendo budget di spesa differenziati per i capolista rispetto ad altri candidati. Questo vale nelle elezioni con le preferenze, ovviamente, perché dove non ci sono preferenze – come nel caso dei parlamentari – chi viene eletto lo decide di fatto chi compila le liste o assegna i candidati nei collegi, cioè direttamente chi comanda nel partito. E questo spiega molto anche della dinamica correntizia per riuscire a contare nel tavolo che decide sui posti.
Ma nelle elezioni dove ci sono le preferenze, europee, regionali e comunali, il potere di indirizzo del partito, con l’andare del tempo, è diventato meno determinante: un po’ per il calo degli iscritti, un po’ per la minor propensione dei circoli ad obbedire senza discutere alle indicazioni che arrivano dall’alto, un po’ per il fatto che ci sono meno risorse a disposizione. Così, nel territorio della federazione bolognese del PD, alle regionali del 2020 per la prima volta non ci sono stati abbinamenti stringenti dei candidati coi circoli del territorio e la competizione è stata più “libera”. In altre federazioni, come si evince dai rendiconti degli eletti, il partito locale ha dato ancora contributi ai singoli candidati, a Bologna no. Questo peraltro comporta anche la difficoltà di avere nella stessa lista candidati ufficialmente sostenuti dal partito di un territorio che competono con candidati liberi di muoversi ma senza sostegni ufficiali: ma non è questo il punto su cui voglio richiamare l’attenzione.
Il punto è che meno conta il partito e più può contare la capacità dei singoli di promuoversi, e quindi la capacità personale di raccogliere sostegni e finanziamenti. Ovvero, guardando la cosa dall’altro punto di vista, se ci fosse qualcuno esterno al partito disposto a spendere dei soldi, potrebbe agevolmente sostenere alcuni candidati favorendone l’elezione. Con una scelta mirata dei candidati da sostenere si potrebbe così influenzare un mutamento di linea politica del partito. E a me pare evidente che questo stia già succedendo.
Un caso che è emerso sui giornali ed è quindi noto è quello della fondazione Social Changes, un ente privato legato a nomi vicini all’establishment dei democratici americani. Questa fondazione ha confermato di aver sostenuto le campagne elettorali personali di vari candidati del centrosinistra italiano in diverse elezioni recenti in Italia, regionali ed europee. Non hanno finora ritenuto di spiegare i motivi delle loro scelte. Noi non sappiamo se sono gli unici a pompare centinaia di migliaia di euro nel sistema, ovvero se ci siano anche altri soggetti che stanno operando in modo analogo, ma sicuramente quelli di Social Changes lo hanno fatto, ottenendo dei risultati.
Lo sappiamo perché sono emersi diversi nomi di candidati da loro finanziati, molti dei quali poi eletti. Nello specifico delle regionali emiliano-romagnole del 2020, ad esempio, Social Changes ha sostenuto quattro o cinque candidati del PD e due di Coraggiosa, e sono risultati tutti eletti tranne uno. Conoscendo i candidati in questione, non è difficile osservare che la loro linea politica ha tratti comuni facilmente riconoscibili. Le stesse caratteristiche sono riscontrabili nei candidati sostenuti da Social Changes in altre regioni o alle europee.
I tratti comuni portano tutti alla linea politica che sta diventando sempre più dominante all’interno del PD, quella che prevede uno spostamento verso posizioni più di (sedicente) sinistra. Una prospettiva che prevede un nuovo abbraccio con le formazioni più a sinistra: quelle che storicamente venivano dalla storia PCI-PDS-DS ed erano uscite a un certo punto dal PD o non vi erano mai entrate; quelle nuove che si sono andate definendo in quella precisa ottica, come le sardine; e forse anche quel che rimane, o meglio quello che sta diventando, il Movimento 5 Stelle. Una prospettiva che non è un semplice ritorno al passato, perché avviene sulla base di nuovi tratti identitari che mettono al centro i temi dei diritti individuali e dell’accoglienza dei migranti, lasciando molto più sullo sfondo altri temi sociali. Un punto fermo in questa direzione è per l’appunto la linea che promuove l’autodeterminazione come valore assoluto, di cui ho parlato nella puntata precedente di questa riflessione. In questa prospettiva è palese e da alcuni apertamente dichiarata l’idea di scaricare come zavorra inutile chi nel PD ancora è fermo alla missione originale di una sintesi di culture diverse, tenendo dentro e promuovendo solo coloro che si prestano a fare le bandierine senza però disturbare i nuovi manovratori.
La mutazione genetica del PD non solo è in corso, ma corre veloce sulle ali dei dollari che la stanno finanziando. Il fatto che nessuno abbia voglia di parlarne, men che meno i diretti interessati, certo non è un buon segno. Come non è un buon segno che a nessuno sia stata posta la domanda più semplice: chi ti ha finanziato la campagna elettorale e perché?