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Amaro destino quello del segretario Nicola Zingaretti: non essere preso sul serio nemmeno nel momento cruciale delle sue dimissioni. Nella sua dichiarazione ha scritto che si vergogna di stare in un partito dove si discute solo di poltrone, anche in momenti drammatici come l’attuale. Tutti gli accusati hanno reagito chiedendogli di restare: tenendosi stretta la propria poltrona hanno cioè chiesto a Zingaretti di tenersi stretta la sua. E via di appelli a restare in sella più o meno spintanei *, intemerate social volte a chiedere epurazioni dei traditori veri o presunti (nel caso specifico i perfidi ex renziani restati dentro al PD per sabotarlo, questa è la caccia alle streghe che va più di moda al momento, ovviamente fingendo di ignorare che in due diverse primarie Renzi ebbe maggioranze superiori ai due terzi ** e chi fossero i suoi sostenitori), interviste che chiedono di ridefinire l’identità del partito tirando la coperta verso le idee dell’intervistato, insomma ancora non si sa se il segretario confermerà le dimissioni e già è ricominciato l’eterno gioco del posizionamento delle correnti.
Ora, io non penso affatto che Zingaretti sia un santo e se potessi incontrarlo a quattr’occhi avrei davvero piacere di spiegargli nel merito i suoi errori che più mi hanno fatto soffrire (e non sono quelli di cui hanno parlato i giornali). E non sono nemmeno sicuro che queste dimissioni non siano solo “ammuina”, ossia un modo per farsi confermare la fiducia dall’assemblea nazionale alla ricerca di un rafforzamento che chissà per quanto tempo possa consentirgli di andare avanti. Ovviamente se così fosse sarebbe una delusione, e non sarebbe la prima.
Ma poi dico a me stesso che non sempre la storia è lineare. Il mondo deve essere grato a Gorbaciov, che pure aveva fatto tutta la sua carriera nel PCUS, perché se non ci fosse stato lui al comando in quel preciso momento storico forse la fine dell’URSS sarebbe stata molto più drammatica e pericolosa. Questo mi rafforza a prendere sul serio le parole di Zingaretti ed il tema che pone. Tutti quelli che, in buona o cattiva fede, non lo fanno e parlano delle sue dimissioni o firmano appelli come se non avesse mai detto la frase “mi vergogno a stare in un partito che parla solo di poltrone”, non si rendono conto del colpo tremendo (e probabilmente definitivo) che subirebbe il PD non prendendo sul serio la denuncia di un segretario che si dimette, dicendo peraltro quello che pensa larghissima parte dell’opinione pubblica, mentre tutti nel partito fingono che lui non l’abbia detto.
Fermiamoci un attimo a riflettere. Il PD non è un partito personale del leader, forma di aggregazione che va per la maggiore e che riscuote molto successo in questo momento storico perché minimizza la conflittualità interna, tutti parlano a una sola voce e così via. Vogliamo diventarlo? Io dico no, siamo l’unico (o almeno il più grande) partito democratico e questa è una diversità che va difesa. Ma siamo davvero un partito democratico? E qui, se siamo onesti, dobbiamo riconoscere che è vero solo in parte, e solo a livello locale. Perché, più il gioco si fa duro, ossia più ci si avvicina al livello nazionale, più il partito è solo una confederazione di correnti, in eterno movimento nel definire gli equilibri fra loro. E’ un fatto, Zingaretti ha ragione nel sottolinearlo, gli elettori lo capiscono e si allontanano: è un problema che va risolto, in modo strutturale.
Quale è il punto su cui agire se vogliamo veramente uscirne e riportare le correnti a ciò che dovrebbero essere, ovvero aggregazione di persone sulle idee e non eserciti di lacché in attesa che salti fuori una poltrona per loro? Dobbiamo togliere alle correnti il potere di nomina dei parlamentari, e ridare questo potere alla base, ossia ai cittadini elettori. Perché se le correnti nominano i parlamentari e poi i parlamentari costituiscono l’ossatura della classe dirigente che elegge i leader, è ovvio che i nominati confermeranno coloro che li hanno nominati, in un eterno circolo vizioso che rende il panorama sostanzialmente immutabile, e questo a prescindere da vittorie e sconfitte, e dal giudizio degli elettori.
Come farlo non lo so, i modi possono essere diversi e ne possiamo discutere, ma se il PD vuole vivere e restare (o meglio diventare davvero) un partito democratico, lo dobbiamo fare. Togliere il potere di nomina alle correnti e ridarlo agli elettori non sarà la panacea di tutti i mali, e certamente si dovrà discutere di identità e di programmi, ma è un primo passo indispensabile per rendere davvero rappresentativa la nostra classe dirigente. Attualmente non rappresenta il partito, ma le sue correnti. E chi non è interno alle logiche correntizie, Roma la può andare a vedere solo come turista. E’ già diversa la situazione a livello regionale, dove ci sono ancora le preferenze, e dove le correnti influiscono ma non determinano tutta intera la partita: perché conta anche il voto degli elettori, fortunatamente.
Ultima chiosa: attenzione perché un leader che dice no alle correnti potrebbe pensare due cose, molto diverse fra loro. Potrebbe pensare di voler restituire alla base, agli elettori, gli strumenti per determinare la selezione della classe dirigente. In questo caso applausi, è quello che io auspico da sempre. Oppure potrebbe pensare che le correnti non vadano bene perché ne deve esistere una sola, ovvero la sua. Facendo un errore grave, perché il PD che diventa un partito personale non sarebbe più il PD, e il gioco ricomincerebbe da capo. Dalle correnti, appunto. Fino alla fine, ormai sempre più vicina.
* Si definisce “spintaneo” un moto spontaneo dal basso, ovvero apparentemente ed in parte effettivamente tale, organizzato però su iniziativa e indicazioni arrivate dall’alto.
** Alle primarie del PD del 2013 Renzi riscosse il 67,5% dei voti e a quelle del 2017 il 69,2%.