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Bella serata di confronto ieri (in presenza) nella sala PD in San Donato. Nel mio intervento ho parlato un po’ del referendum, tema su cui mi ero già pronunciato in questo post, ribadendo che il punto cruciale sarà il modo in cui verranno riviste le modalità di scelta dei parlamentari: più la scelta verrà delegata agli elettori e meglio sarà, più resterà nel controllo sostanziale dei capi corrente e peggiore sarà il nostro futuro. Mi sono poi soffermato a commentare il risultato delle regionali e delle amministrative.
Cosa ci dicono questi risultati? Che si è vinto dove siamo riusciti a parlare in modo largo agli elettori e a guadagnare voti anche fuori dal recinto di coloro che sono tradizionalmente orientati ad un voto per il centrosinistra. Era stata una chiave del successo in Emilia-Romagna nel gennaio scorso, che si è riproposta anche stavolta. Va riconosciuto che questa capacità di attirare voti fuori dagli schemi è stata varia e molto dipendente dalle caratteristiche personali e politiche dei candidati presidente di regione o sindaco. Anche per questo in prospettiva occorre lavorare per dare un’identità più definita al PD e al centrosinistra, possibilmente in grado di essere convincente al nord come al sud, al centro come nelle periferie.
Nel commentare un risultato comunque ricco di aspetti positivi, ricordiamoci però di due aspetti. Primo, che in questa tornata elettorale la frammentazione è stata compensata (e quindi in larga misura “asciugata”) dalla naturale tendenza degli elettori ad esprimere un voto utile, ossia per un candidato presidente o sindaco con reali possibilità di vittoria. In una elezione politica nazionale o europea, dove non ci sono sindaci o presidenti di regione da eleggere, è possibile che questo fattore venga a mancare o abbia un peso minore.
Secondo, che in queste elezioni mancava un catalizzatore del voto di protesta. Il M5S lo è stato fino alle elezioni politiche del 2018, ora non lo è più, punto e basta. Nè l’offerta politica presentava novità in grado di rivestire credibilmente questo ruolo. Sono convinto infatti che chi è stato al governo del paese difficilmente possa tornare a presentarsi come una novità capace di raccogliere i voti degli elettori desiderosi di dare una spallata al palazzo pur di promuovere un cambiamento (lo capiranno anche i grillini nel prossimo futuro, se non gli fosse già chiaro).
Sarebbe un errore grave quindi trasformare la legittima soddisfazione legata alle vittorie amministrative, certamente importanti, in un autocompiacimento che ci impedisca di comprendere che abbiamo ancora molta strada da fare e molte lacune da correggere per arrivare ad essere talmente convincenti e competitivi di fronte agli elettori da non dover temere il voto di protesta e i suoi nuovi catalizzatori che inevitabilmente emergeranno nel prossimo futuro.
Serve quindi umiltà, senza dare per scontato che il peggio sia alle spalle o che disponiamo di un consenso che possiamo dare per scontato. Serve dialogo e collegialità, facendo diventare un valore le differenze di idee nella capacità di trovare sintesi alte e convincenti non solo al nostro interno. Serve il coraggio di sciogliere alcuni nodi per definire con una certa precisione l’identità di forza riformista. Anche affrontando il tema politico (o forse dovrei dire l’equivoco) che cova sotto la cenere ormai da troppo tempo, e che è riassumibile nella domanda: cosa significa essere sinistra in questo nostro tempo?
Nei giorni scorsi ho avuto l’occasione di leggere un libro interessante di Pier Giorgio Ardeni che si intitola “Le radici del populismo” e di dialogarne con l’autore in una serata alla Festa dell’Unità di Granarolo Emilia. Il libro parla diffusamente dei populismi, ma molto anche della sinistra, colpevole – secondo l’autore – di avere ammainato, in tempi di globalizzazione, la bandiera dell’uguaglianza e di avere perseguito un disegno sostanzialmente neoliberista. Un’affermazione forte e che non condivido, ma cosa significa in concreto? Andando nel merito, per certi versi sorprendentemente, ho ritrovato temi veri e cruciali: il libro parla molto dell’ascensore sociale bloccato, di un sistema in cui studiare non paga, di analfabetismo funzionale alfabetico e numerico. Nelle conclusioni c’è una frase che sento molto vera: “Un paese fermo, ingabbiato in classi sociali immobili, in un’economia lenta a cambiare, con una classe dirigente affannata ad improvvisare inseguendo governabilità senza accountability, merito senza competenza, competitività senza tutele e consenso senza rappresentatività.”
Ora, dobbiamo decidere cosa vogliamo che significhi essere di sinistra oggi. Perché, se essere di sinistra significasse mettere da parte il merito, come potremmo riavviare l’ascensore sociale? Se essere di sinistra significasse illudersi che la ripetizione meccanica di slogan del secolo scorso possa restare valida in un mondo in cui la globalizzazione ha completamente ridefinito le regole del gioco, il trucco potrebbe funzionare solo restando ben lontano dall’applicazione pratica, ossia dal governo dei territori e del paese. Se essere di sinistra significasse… potrei continuare a lungo.
La risposta invece non può che essere quella di raccogliere la sfida contenuta in quella frase, dura ma vera, e cominciare ad inseguire governabilità con accountability, merito basato sulla competenza, competitività anche grazie a nuove tutele e consenso fondato davvero sulla rappresentatività. Vale a dire tenerci stretti (o recuperare) valori forti nella tradizione della sinistra ma declinarli in modo nuovo e miscelarli con concetti e strade nuove. Significa per l’appunto riuscire a tenere nella stessa frase parole come tutele e rappresentatività con parole come merito e competitività. O per dirla con una citazione importante (non del libro di Ardeni però) occorre fare “come un capofamiglia che dal suo tesoro tira fuori cose vecchie e cose nuove”. E per riuscirci abbiamo bisogno di buttare via le coperte di Linus e di affrontare il mare aperto.
Non è quindi questione di moderazione, di inseguimento del ceto medio, di guardare più a sinistra o al centro, non è questione di geometrie del passato. Serve al contrario ritrovare una radicalità ma su uno schema credibile e in larga parte nuovo, perché quando proviamo ad essere radicali sugli schemi del secolo scorso, tutt’al più facciamo tenerezza.
Come si sconfigge il populismo? Per l’appunto, con una proposta che funziona davvero, una proposta equilibrata e matura. Ecco, ci serve un cammino verso la maturità, perché se da un certo punto di vista stiamo vivendo una specie di crisi della mezza età, questa va superata maturando insieme. E ben vengano le energie dei giovani a dare vigore, purché però non si pensi che la prospettiva sia quella di regredire tutti all’adolescenza. Il rischio è dietro l’angolo.