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Sull’edizione bolognese del Corriere di oggi compare una mia intervista sul tema dei cattolici e della politica. Un dibattito avviato qualche giorno fa con la proposta di fare un nuovo partito dei cattolici e che sta vedendo diversi interventi, e che al di là dei consensi e dissensi sul punto specifico di un partito cattolico, sta vedendo emergere considerazioni e temi a mio avviso interessanti. Oltre a riportare qui la mia intervista, voglio argomentare ulteriormente le mie affermazioni.
Durante la Prima Repubblica, non era affatto inconsueto che nelle parrocchie si invitasse a votare DC. Con la Seconda Repubblica, finita l’epoca dell’unità politica dei cattolici, ed assodato il fatto (peraltro già vero da anni) che vi erano cattolici in diverse formazioni politiche e che il voto dei cattolici potesse andare a premiare diversi partiti, si è fatta strada la comprensibile e corretta preoccupazione di non mischiare i due piani. Peraltro, dovendo il parroco e i sacerdoti avere cura pastorale di persone con idee politiche varie, mi pare una giusta prudenza quella di non schierarsi in modo esplicito per l’una o l’altra parte.
Nei fatti però si è andati molto oltre, e l’indicazione è stata quella di bandire del tutto il dibattito politico dalle parrocchie. Perché mai? Sarebbe stato corretto e più che sufficiente dare l’indicazione che per trattare un tema politico si dovesse dare spazio alle diverse linee di pensiero. In quel modo, si sarebbe tranquillamente potuto fare un incontro in parrocchia ma avendo cura di invitare relatori rappresentativi delle diverse opzioni politiche in campo. Ma si è preferito tagliare la testa al toro, forse anche per evitare che i parrocchiani avessero occasione di discutere e magari di dividersi su temi politici, e da decenni ormai di politica nelle parrocchie non si può parlare, non si possono fare incontri, né tanto meno invitare politici ad interloquire.
Non voglio discutere qui il senso pastorale di una fede che rischia di ridursi solo al culto e di essere privata degli aspetti di applicazione ai problemi sociali concreti, che inevitabilmente hanno risvolti politici. Preferisco concentrarmi sulle conseguenze che questa indicazione ha avuto sulla politica. Prima di tutto, ha reso molto più complicata l’interlocuzione delle persone cattoliche impegnate in politica con le proprie comunità ecclesiali di riferimento. In secondo luogo, ha tolto strumenti di comprensione e di lettura della politica ai credenti, contribuendo ad alimentare l’impoverimento culturale che è alla base del dilagare dell’antipolitica. In terzo luogo, ha depotenziato la possibilità di verificare le posizioni e l’operato dei politici, e il confronto negato lascia fatalmente spazio al disinteresse e al passaparola. Così, non è infrequente scoprire che vi sono parrocchie che finiscono per essere bacino di voti di politici che poi hanno posizioni distanti anni luce dalle convinzioni di chi – in buona fede ma con scarsa possibilità di verifica – li ha votati. In definitiva, è una scelta che ha indirettamente ma significativamente contribuito all’allontanamento della politica dai valori di fondo cari alla dottrina sociale della Chiesa.
Inutile girarci attorno. Al di là del problema, che è generale, di evitare di predicare bene e razzolare male (difetto principe della politica di ogni ordine e grado), i punti di maggiore frizione fra la linea politica e i valori di ispirazione cristiana sono diversi a seconda delle forze politiche. Il centro-destra ha problemi soprattutto sui temi dell’accoglienza (non solo dei migranti), su cui rischia fortemente di esprimere posizioni di sostanziale egoismo collettivo. PD e centrosinistra in genere hanno problemi su una interpretazione radicale (sia come aggettivo che come riferimento alla tradizione del Partito Radicale) del tema dei diritti, in cui rischiano di scivolare su posizioni individualistiche. Il M5S, per come si è caratterizzato, mi pare che corra entrambi i rischi.
E’ naturale che il Papa e i Vescovi su questi temi si esprimano e facciano sottolineature, anche in ragione di una distanza dai programmi delle forze politiche. Ecco quindi che Papa Francesco parla sia di accoglienza che di gender (cito questi argomenti per esemplificare). Quando parla di accoglienza, di solito raccoglie plausi da sinistra e silenzi da destra, e quando parla di gender succede il viceversa: è sempre più semplice sottolineare le magagne altrui che interrogarsi sulle proprie. Ma quel che trovo un po’ singolare, lo confesso, è che ci siano Vescovi che parlano quasi solo di accoglienza ed altri che parlano quasi solo di gender (per stare all’esemplificazione), correndo il rischio di allinearsi alla politica e alle sue lacune sui temi di ispirazione cristiana, piuttosto che spronare i vari schieramenti a maturare ognuno per quanto lo riguarda.
Ma vengo al tema politico che riguarda specificamente il partito e lo schieramento di cui faccio parte.
Il PD è nato con l’ambizione di rappresentare in modo ampio la parte riformista del Paese, e fra i tanti anche i cattolici. Il PD è chiamato a definire la propria identità: era una necessità ed un’opportunità anche prima, nel quadro maggioritario per cui e in cui il PD è nato; è un passaggio assolutamente indispensabile adesso, che il sistema elettorale è tornato ad essere sostanzialmente proporzionale. Infatti, in un quadro proporzionale sono premiate le proposte chiare e con una identità ben definita: se i nodi non vengono sciolti e si continua a navigare in modo indefinito, il rischio è che siano gli elettori a fare scelte diverse.
Ora, quando dico che serve chiarezza, non sto dicendo che il PD deve obbligatoriamente definirsi sul punto di vista dei cattolici che ne fanno parte, ma che serve una sintesi chiara e non fumosa, che sciolga nodi su temi che sono con evidenza all’ordine del giorno. Una volta definita la posizione del PD su questi temi chiave, ognuno potrà valutare quanto si sente rappresentato, e gli elettori potranno scegliere se votarci o meno avendo capito quale posizione intendiamo rappresentare. Compresi gli elettori cattolici.
Uno dei temi a mio avviso più rilevanti su cui è urgente definire la posizione del PD è l’utero in affitto, o gestazione per altri che dir si voglia. E’ un tema all’attenzione dell’opinione pubblica e che per le sue caratteristiche è fortemente indicativo di una concezione antropologica. Fra i contrari non c’è solo il mondo cattolico ma anche la grande parte del mondo femminista, e lo stesso mondo lgbt+ è diviso sull’argomento. Il PD è riuscito finora nell’impresa di non esprimersi sul punto, ma Martina aveva nominato Lo Giudice (che è fra i più favorevoli) come responsabile del dipartimento dei diritti. Era una indicazione implicita? Sia che lo fosse che in caso contrario, credo sia stata una scelta sbagliata.
Su questo tema, come su tutti gli altri temi delicati, il congresso in corso del PD tace, e in questo manifesta tutta la sua inadeguatezza. Le piattaforme dei candidati si limitano a veicolare concetti genericamente condivisibili, evidenziando differenze solo sul giudizio sulla nostra passata stagione di governo, peraltro senza entrare nel merito nemmeno di quella. Ogni candidato evidenzia un ventaglio di sostenitori il più ampio possibile, e per coltivarlo evita accuratamente di prendere posizione su temi delicati. Ma in questo modo il rischio che corre il PD è quello di apparire immerso nei riti di partito ma incapace di fornire una caratterizzazione chiara agli elettori.
In questo contesto qualcuno già scommette che il PD possa crollare sotto il combinato disposto (sic) del sistema elettorale proporzionale e della propria incapacità di sciogliere i nodi utili a chiarire l’identità con cui presentarsi agli elettori. E, di fronte ad una potenziale prateria elettorale, arrivano i posizionamenti per prenotare spazi e visibilità. Poco importa se questi posizionamenti si riducono a sventolare delle etichette anziché definire la propria identità sui programmi. E poco importa la congruità fra le etichette e la storia politica personale di chi le sventola: in assenza di una focalizzazione sul merito e sui programmi vale più o meno tutto.
Non mi pare faccia eccezione l’ipotesi di partito politico dei cattolici, visto che ne parlano a destra, al centro e a sinistra. Il mio scetticismo lo motivo con semplicità: siccome credo che l’identità di una forza politica si sostanzi nel merito delle idee e dei programmi, non vedo come la fede religiosa possa essere il fattore di aggregazione. Chi condivide quel programma e quell’identità, potrà liberamente riconoscervisi a prescindere dalla fede religiosa di provenienza. In questo senso dico che tornare a pensare ad un “partito cattolico” sarebbe un passo indietro.
Invece è di assoluta attualità la compatibilità fra l’identità di un partito e l’ispirazione cristiana di una parte dei suoi militanti. Nel caso del partito di cui faccio parte, se il PD vuole continuare ad essere un partito capace di aggregare anche cattolici, è chiamato a fare delle scelte chiare su una serie di temi, come ho provato a spiegare anche con un esempio concreto. Fare le scelte sbagliate, o non farle, comporterebbe un rischio enorme in un quadro proporzionale. Vale per il PD come per altri: se i partiti vogliono continuare ad avere un senso, evitando di ridursi a cordate di persone più o meno interessate a sostegno di questo o quel leader, con questi nodi devono fare i conti.
[…] “Il nostro impegno va oltre le scadenze elettorali” (La Stampa). Giuseppe Paruolo, “L’errore fu espellere la politica dalle parrocchie” (Corriere di Bologna 18.1). Claudio Maffi, “Un nuovo movimento di cattolici” (Italia oggi). […]