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Il 7 ottobre scorso si sono svolti 7 referendum locali su altrettante proposte di fusione di comuni. In questa tornata, si trattava di fusioni fra due comuni in ognuno dei casi. L’esito del voto ha visto 3 fusioni approvate dai cittadini. Fra quelle bocciate ci sono anche le 2 fusioni proposte nell’area metropolitana bolognese, Castenaso-Granarolo e Malalbergo-Baricella.
Il dibattito sull’esito del voto è durato pochi giorni: giusto il tempo per ascoltare una manciata di pareri, alcuni frettolosi, altri interessati. Qualcuno ha provato a dare la colpa al PD (ormai sembra essere diventato uno sport nazionale), ma in realtà mi sono parsi pareri preconfezionati e nemmeno troppo convinti: qualcuno voleva prendersela col PD nell’ottica politica nazionale, altri volevano caricare del peso la segreteria bolognese (come noto siamo in un passaggio delicato), altri ancora erano semplicemente interessati a delocalizzare le responsabilità. Comunque, fra i pareri che ho letto, ho trovato interessante quello di Piero Ignazi. Segnalo anche l’articolo di Paolo Calvano, segretario regionale del PD, che giustamente si oppone alla lettura politicistica del risultato. Delle fusioni ho parlato anch’io, in una mia intervista al Carlino.
Se il PD avesse politicizzato il voto, trasformandolo in una scelta politica e non di merito locale, io credo che avrebbe fatto un errore. Errore che ci sarebbe stato poi rinfacciato, magari dagli stessi che hanno provato a dare la colpa al PD per scarso impegno. Purtroppo tutto fa brodo, pur di non guardare in faccia la realtà. Peraltro l’argomento politicistico non regge minimamente, visto che sono state approvate fusioni dove il PD alle scorse politiche aveva ottenuto risultati poco lusinghieri, e sono state bocciate fusioni dove si era vinto il referendum costituzionale e alle politiche il PD aveva avuto buoni risultati. Basta dare un’occhiata alla tabella seguente. Le ragioni vanno quindi cercate altrove.
Vanno meglio le fusioni di comuni piccoli? I dati offrono qualche supporto a questa ipotesi. Se consideriamo che i comuni frutto delle fusioni proposte, in 4 casi risultavano sotto i 15 mila abitanti e di quelle 4 proposte ne sono state approvate ben 3. Di più: anche l’altra fusione, quella fra Lama Mocogno e Montecreto, la più piccola di tutte visto che il comune risultante avrebbe avuto 3.645 abitanti, ha visto una forte affermazione del “sì” in un comune e una sconfitta di misura nell’altro comune, con i “sì” comunque complessivamente in maggioranza. Sui comuni piccoli si può argomentare che è più cogente la necessità di fondersi, al fine di raggiungere una dimensione migliore se non ottimale. I comuni che risultano dalle 3 fusioni approvate, che contano circa 7, 8 e 13 mila abitanti, avranno d’ora in poi sicuramente dimensioni più idonee dei comuni da cui derivano. Certo, è un fatto che le 3 proposte di fusione che avrebbero generato comuni sopra i 15 mila abitanti sono tutte state nettamente respinte nel voto. Ma anche se la dimensione qualcosa racconta, non credo che esaurisca il tema.
Vanno meglio le fusioni che comportano un vero salto di qualità? E’ un’idea che mi convince maggiormente e mi pare più generalizzabile, ed è quella che ho citato nell’intervista al Carlino di qualche giorno fa. Ovvero, siccome ogni fusione comporta la rinuncia a un po’ della propria identità, mi pare che funzionino meglio quelle dove il progetto fa fare un vero salto di qualità. Può essere vero per due comuni sotto i 5 mila abitanti che fondendosi salgono sopra tale soglia (è il caso delle due fusioni nel ferrarese, ad esempio). Ma può essere vero anche per la grande fusione di Valsamoggia, dove 5 comuni hanno dato vita ad un unico grande comune. In generale, il gioco deve valere la candela, e non è detto che basti evocare il contributo finanziario riconosciuto per legge ai comuni fusi perché i cittadini riconoscano nella proposta un progetto da sostenere. Anzi, i risultati dimostrano che non basta.
Per fare un passo avanti nell’analisi, dobbiamo uscire dai numeri nelle tabelle ed entrare nello specifico delle realtà territoriali. Facendolo, gli aspetti più importanti che mi paiono emergere dalle fusioni votate il 7 ottobre sono due: avere una storia di lungo respiro, e un bisogno che cerca risposte. Vediamoli nel concreto delle situazioni.
Una storia di lungo respiro. Andiamo nel parmense. Sorbolo e Mezzani hanno deciso di fondersi con una percentuale di sì superiore all’80%, ma questi due comuni sono da tempo uniti in una unione che li ha visti arrivare a gestire insieme il 95% dei servizi. E’ quindi la storia di una collaborazione ormai ventennale, che trova uno sbocco naturale nella fusione. Potremmo dire che i due comuni, dopo lungo fidanzamento, hanno deciso di sposarsi. I due comuni confinanti, Colorno e Torrile, hanno invece intrapreso la strada della fusione in tempi molto più recenti, senza una vera storia di cooperazione alle spalle, e lì i cittadini (soprattutto di Torrile) hanno nettamente bocciato la fusione. Se ci spostiamo nel ferrarese, Tresigallo e Formignana erano un comune unico fino al 1961. E’ stato quindi un ritorno al passato, un ripristinare una situazione preesistente, con tutti i vantaggi finanziari derivanti dalla fusione.
Un bisogno che cerca risposte. Nelle dichiarazioni dei sindaci di Berra e di Ro ferrarese, dopo il referendum, c’è una comune soddisfazione perché grazie ai soldi della fusione si potrà lavorare per evitare il declino. Un rischio concreto, quindi, che è stato probabilmente percepito e condiviso dai cittadini dei due comuni, che avevano il problema di trovare un modo per fronteggiare una crisi anzitutto demografica, e la fusione è stata una risposta possibile. Ed è un tema sentito in generale nel ferrarese, quindi può aver giocato un ruolo motivante anche per l’altra fusione approvata.
Viceversa, dove le comunità non si percepivano in declino, ma anzi la percezione era quella di stare bene, e dove la proposta di fusione è arrivata ai cittadini senza un adeguato periodo di preparazione, vale a dire senza essere preceduta da una lunga e proficua collaborazione precedente, le cose non hanno funzionato. Anzi, è stata percepita come estemporanea, come motivata da ragioni politiche poco chiare o legata alle ambizioni personali degli amministratori, e la risposta dei cittadini è stata molto negativa. Con questo non voglio giudicare la bontà della proposta: magari fare la fusione era anche una buona idea, ma senza un bisogno cogente e/o una storia di collaborazione vera fra le comunità, i cittadini non l’hanno apprezzata e l’hanno bocciata nelle urne.
Infine, ci sono i partiti e le persone. Perché c’è poco da dire, qualche risultato ci parla senza ombra di dubbio del distacco di alcuni amministratori dalla propria gente: perché quando parti lancia in resta verso la fusione, mettendo a tacere chi ti consiglia prudenza spargendo sicurezze sul buon esito del percorso, e poi ti ritrovi che il “sì” prende il 25% dei voti, forse qualche domanda dovresti fartela. E magari riflettere sul perché altri sindaci del bolognese, dopo aver avviato percorsi di preparazione ad altre fusioni, hanno preferito momentaneamente soprassedere.
Come pure sarebbe utile una riflessione sul ruolo dei partiti, che purtroppo a livello locale rischiano di appiattirsi troppo sulle amministrazioni, facendo venire meno un ruolo dialogico che invece sarebbe utile se non altro a comprendere meglio la realtà. Castenaso e Granarolo sono due esempi significativi e per certi versi opposti, da questo punto di vista. Qualcuno non ha gradito l’accenno che ho fatto nell’intervista a queste realtà, che conosco meglio di altre. Ma forse costoro dovrebbero, anzi dovremmo insieme, interrogarci su questi argomenti e provare a riflettere sugli errori commessi e certificati dall’esito del referendum, in modo da correggerli prima che la parola torni di nuovo agli elettori per il voto amministrativo. Non c’è tanto tempo.