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Lo scorso 24 marzo ho partecipato all’iniziativa “Quando le porte si sono aperte”, promossa dallo SPI-CGIL e dal Comitato di ricerca e documentazione sul superamento dell’ospedale-ricovero di San Giovanni in Persiceto, iniziativa di cui ho già parlato in un post precedente. Gli organizzatori mi hanno in questi giorni mandato il testo del mio discorso, che riporto di seguito ringraziando loro per la cortesia e la dr.ssa Mila Ferri della Regione Emilia Romagna per il supporto e la documentazione che mi ha fornito mentre preparavo questo mio intervento.
Un grazie non formale agli organizzatori per l’invito ed alle persone che hanno parlato prima di me: è per me è un’occasione importante per conoscere meglio vicende di cui sapevo solo sommariamente. Mentre ascoltavo gli interventi precedenti, mi veniva da pensare che oggi, nell’era dei social network, magari sappiamo cosa ha mangiato ieri qualcuno che conosciamo oppure cosa pensa di un programma televisivo che ha appena guardato, mentre ci sfuggono cose molto più importanti né abbiamo l’occasione per farcele raccontare. Ad esempio io conosco Gianni De Plato da quindici anni, ma mentre lo ascoltavo raccontare mi chiedevo, e chiedo al sindaco e a voi tutti, se facciamo abbastanza per far conoscere questi avvenimenti alle nuove generazioni, persone che nel periodo di cui stiamo parlando non erano ancora nate. Ci sono insegnamenti importanti in questa storia. Vale anche per me, che nel 1972 avevo dieci anni, e a maggior ragione vale per chi nasce in questi anni e rischia di non avere nessuna memoria delle battaglie di quel periodo.
Sappiamo che la riforma psichiatrica del 1978 ha segnato il passaggio dell’assistenza dall’ospedale alla comunità. Si è affermata l’idea di psichiatria di comunità, tanto è stato costruito e tante conquiste sono ancora oggi da difendere. L’idea però di una politica di salute mentale, che sia veramente al servizio della comunità e del territorio, implica un passaggio ulteriore, ovvero chiederci quali sono i bisogni emergenti e quale è la strategia che ci aiuta a massimizzare il beneficio per tutti con le risorse disponibili.
Le risorse sono un elemento non indifferente, e lo abbiamo sentito anche da alcuni passaggi, come nel racconto di quel TSO evitato con dieci ore di impegno di persone che in quelle ore si sono prodigate. Sia che si tratti di lavoratori che svolgono quel lavoro e per quello vengono pagati, oppure anche di persone che si impegnano sulla spinta di una motivazione volontaria, in ogni caso abbiamo bisogno di rapportare le sfide che oggi abbiamo di fronte al tema della risorse.
Le nostre comunità hanno subito grandi trasformazioni in questi ultimi decenni, che in altre epoche avrebbero richiesto secoli. Credo che ognuno di noi ne abbia la percezione: pensiamo solo agli strumenti e alla tecnologia di cui disponiamo e la velocità con cui si sono innescati ed evoluti processi. Sono innovazioni che hanno portato miglioramenti, evidenti se confrontiamo la situazione di oggi con quella che diversi di noi possono collocare nel periodo della giovinezza: pensiamo ad esempio al reddito medio, all’istruzione, alle aspettative di vita, all’evoluzione che abbiamo avuto in termini di pari opportunità ed occupazione femminile. E’ innegabile che ci siano stati miglioramenti, pur essendoci ancora molta strada da fare.
Al tempo stesso ci sono degli aspetti per cui la nostra società oggi è più povera, ed anche di questo dobbiamo avere coscienza. Le povertà di oggi sono una maggiore vulnerabilità, tante situazioni in cui le reti di sostegno informale, le famiglie, le reti amicali, i luoghi di aggregazione (le parrocchie, il partito, i centri sociali) e di vicinato hanno in larga parte consumato il capitale sociale che detenevano. Se siamo qui oggi lo dobbiamo all’impulso dello SPI, e anche questo deve farci riflettere e pensare a dove sono le risorse sociali oggi: in questo senso credo che il corpo dei pensionati possa davvero rappresentare uno dei pochi baluardi rimasti, una risorsa da valorizzare appiena. Al tempo stesso dobbiamo chiederci in prospettiva cosa rimarrà di un’attitudine, di un impegno che oggi vediamo nel campo della salute mentale ma che riguarda anche altri settori. Perché spesso i volontari sono sempre gli stessi, che si cambiano un cappello e se ne mettono un altro per collaborare ad una idea di società, che nel lavoro volontario, nell’impegno di tutti riesce a trovare dei luoghi di ancoraggio.
Anche le modificazioni del ciclo produttivo hanno reso possibile sicuramente un maggiore benessere economico, però al tempo stesso abbiamo a che fare con fenomeni come il calo della natalità; il fatto che le generazioni siano più distanti, perché le donne fanno i figli molto più tardi rispetto ad un tempo; la riduzione della dimensione dei nuclei familiari, con famiglie più piccole e con meno risorse. Perché quando si è in pochi, se qualcuno non sta bene mancano gli appoggi all’interno del contesto familiare, vengono meno meccanismi di compensazione, c’è una drastica riduzione del tempo sociale. Pensate anche al tema dell’immigrazione: tanti dei problemi psichiatrici nascono dal disagio evidente che le popolazioni immigrate vivono, sia per ragioni socio economiche, che per la rapidità della trasformazione a cui sono sottoposte. Infatti se è vera per gli italiani la fatica indotta da queste trasformazioni sociali, a maggior ragione è vera per chi arriva da contesti sociali completamente differenti, come pure per gli stranieri di seconda generazione, con tutto il tema della cittadinanza. La pressione che c’è in questi contesti è molto forte, ed è stata per di più ingigantita in questi ultimi anni dalla crisi. Penso certo alla difficoltà del reperimento delle risorse per poter continuare ad erogare servizi, ma penso anche all’attenzione e alla disponibilità diffusa a stare in prima linea. Cito ad esempio i finanziamenti per l’inserimento al lavoro delle persone con disabilità e all’enorme incremento che questi fondi hanno subito in questi anni: un incremento dovuto alle multe (ovvero ai contributi obbligatori) pagate dagli imprenditori inadempienti rispetto all’inserimento delle persone disabili in azienda. L’esplosione delle risorse finanziarie a disposizione dipende proprio dal fatto che in realtà tanti preferiscono pagare un contributo economico, piuttosto che farsi carico di una persona disabile, che viene percepita come un peso e viene delegata a chi “professionalmente” se ne occupa: la cooperazione sociale, o comunque un mondo che viene percepito come quello dei professionisti dell’integrazione, mentre chi invece fa vita d’azienda in senso tradizionale e senza un’accentuazione sociale molto forte, ritiene di non potersi far carico di quel problema, perché ha ben altro a cui pensare. Sono segnali che ci raccontano un venire meno della tensione ideale, segnali contrari a ciò di cui stiamo parlando oggi. Oggi discutiamo della chiusura di strutture manicomiali, di “porte che si sono aperte”. Parliamo della scelta di un modello che ponga l’obiettivo della cura in capo ad uno sforzo collettivo importante. Sentire quindi che pezzi importanti della nostra società tendono a sfilarsi da questo sforzo collettivo, non può che farci preoccupare e riflettere.
Un altro tema su cui dovremmo interrogarci è quello della salute mentale della collettività. Noi siamo abituati a pensare alla salute mentale come un problema delle singole persone; però forse dovremmo davvero interrogarci anche sulla salute mentale nel senso collettivo del termine. Noi discutiamo dei bisogni delle persone che hanno disturbi mentali gravi o persistenti, che sono le persone per cui erano stati pensati gli ospedali psichiatrici, anche se poi ci finirono anche persone che avevano solo un disagio sociale e non un problema psichiatrico rilevante. Come portare avanti questo tema a decenni dalla chiusura dei manicomi è certamente un aspetto su cui fare il punto, nella consapevolezza che gli obiettivi oggi di un progetto di cura sono molto più ambiziosi di quelli di soltanto dieci anni fa, perché oggi parliamo di autonomia nell’abitazione, nel lavoro, del tempo libero.
Ma dobbiamo riconoscere che accanto ai problemi psichiatrici classici, gravi e persistenti, c’è un’ampia fascia di utenza nuova, molto meno definibile, meno collocabile, che esprime disturbi che pure ci devono interpellare, perché si tratta comunque di persone sofferenti, anche se hanno disabilità meno accentuate. Mi riferisco al disagio giovanile, all’aumento delle depressioni e dei disturbi ansiosi, fenomeni che sovente possiamo riscontrare già nella prima infanzia, poi nell’adolescenza, nella giovane età adulta. Pensiamo al mondo di allora, degli anni ’60/’70, quando erano quasi inimmaginabili per esempio i disturbi del comportamento alimentare, mentre oggi assistiamo ad un dilagare di questi disturbi. Se fosse ancora vivo mio nonno, credo che non riuscirei nemmeno a spiegarglieli… i nostri genitori e i nostri nonni hanno sperimentato il problema contrario, quello di dare da mangiare ai figli, e non avrebbero avuto gli strumenti culturali per affrontare il problema di persone che non si nutrono, pur disponendo di cibo per nutrirsi, solo perché qualcosa si rompe dentro di loro e li porta a scegliere una situazione di pre-morte e di comportamenti insani. Pensiamo anche ai disturbi di personalità, e a tutte le situazioni derivate dall’assunzione di sostanze. Anche sull’assunzione di sostanze il mondo è cambiato: un tempo i tossicodipendenti assumevano eroina e finivano per estraniarsi dalla società, mentre oggi abbiamo persone che lavorano, vanno a scuola, fanno una vita normale avendo però consumi di droghe magari confinato nel fine settimana, e senza che ci sia una alterazione visibile nel quotidiano. Pensiamo infine ai disturbi propri degli anziani: le statistiche ci consegnano due dati assolutamente significativi: uno è quello dell’aumento della speranza di vita, molto confortante; l’altro è la prevalenza delle demenze senili, che mi pare arrivino al 50% all’età dei 95 anni. Sono numeri che riguardano le persone coinvolte, ma anche le loro famiglie. Quasi tutte le famiglie oggi hanno avuto l’esperienza di anziani da accompagnare in percorsi complicatissimi di demenza.
Vediamo quindi un quadro che si va componendo con nuovi capitoli da scrivere insieme, con un coinvolgimento vero delle amministrazioni locali, perché praticamente quasi ogni cittadino presenta ormai un delicato intrico di problemi di salute e problemi sociali. Per questo le sfide che siamo chiamati ad affrontare sono davvero importanti.
Per l’Emilia Romagna le strategie ragionali in tema di promozione della salute mentale partono da queste premesse. Quando parliamo della Regione vorrei sempre ricordare che dobbiamo essere fieri dei livelli di assistenza che abbiamo saputo costruire: ogni volta che non lo facciamo, vuol dire che non ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo, e a chiunque di noi è capitato di fare esperienza di assistenza sanitaria in altre regioni, una certa differenza l’ha subito percepita. Al tempo stesso, ogni volta che ci diciamo fieri della nostra assistenza socio-sanitaria, dovremmo anche aggiungere che occorre avere coscienza dei problemi che abbiamo di fronte e del rischio di involuzione, in parte dovuto al tessuto sociale, in parte ad una incapacità della politica di mettersi alla guida di un processo di trasformazione.
Dobbiamo avere dunque coscienza anche delle problematiche, a partire dal tema delle risorse. Chi decide il budget cerca di fare del suo meglio con le risorse disponibili, poi quando il budget viene assegnato al servizio di salute mentale, con quello deve curare la popolazione. Ad esempio l’E.R. ha sempre confermato la scelta di non mettere i vouchers, ma non è che basti sempre l’affermazione del principio, e proviamo a capire perché. Ci sono ad esempio malattie molto costose da curare. Inoltre i servizi si trovano di fronte a volte a famiglie spappolate al punto che mancano gli interlocutori fra i familiari del paziente; mentre altre volte ci sono famiglie con una coscienza dei propri diritti talmente alta, che non chiedono ma pretendono di ricevere le cure a loro giudizio migliori anche se questo implicasse chiamare dodici scienziati dislocati dagli Stati Uniti fino alla Nuova Guinea. In questa divaricazione il tema della allocazione delle risorse non è indifferente, perché operando all’interno di un budget predefinito se si mettono risorse importanti a curare alcune gravi patologie, dopo la coperta rischia di essere più corta dall’altra parte. Alcune regioni hanno risolto questo problema mettendo i vouchers: per determinate patologie ti viene riconosciuta una somma, e con quella ti devi curare, se non ti basta integri di tasca tua. La Regione E.R. ha scelto di non farlo, per affermare la scelta dell’universalismo delle cure, una scelta in linea con il pensiero della stagione che stiamo ricordando oggi, con l’affermazione che la persona non vada scaricata col suo problema ed un sussidio economico. Però poi il tema di come collocare le risorse rimane, perché se le risorse ci fossero in abbondanza per fare tutto il problema non esisterebbe, ma siccome le risorse esistono in misura finita, allora decidere come curare i diversi casi equivale a fare scelte politiche. Invece sarebbe giusto che queste scelte fossero effettivamente discusse e condivise anche da una classe politica che dovrebbe avere una coscienza maggiore rispetto al fatto che è su queste questioni che si misura l’efficacia del sistema. Non possiamo quindi che affermare il bisogno di ritornare ad avere amministratori paragonabili a quelli che oggi portiamo ad esempio di quella stagione, che hanno legato il loro nome a delle trasformazioni importanti.
Le linee guida su cui la Regione si è impegnata nel piano di azione sulla salute mentale varato nel 2009 sono: primo la partecipazione di utenti e famiglie attraverso i Comitati costituiti in ogni azienda sanitaria e la Consulta regionale sulla salute mentale; secondo il contrasto al pregiudizio ed allo stigma sociale attraverso progetti di comunità, con la valorizzazione dell’auto e del mutuo aiuto fra utenti. Su questo tema lasciatemi citare un progetto di legge che ha recentemente presentato la mia collega Paola Marani, che qui tutti conoscete, sui caregivers, ovvero chi assiste il familiare o la persona amica e che è certamente un segnale importante di attenzione alle reti di solidarietà fra le persone. Terzo la definizione di percorsi clinico assistenziali innovativi, che intercettino i bisogni all’origine (progetto esordi psicotici),l’importanza di riuscire a cogliere dall’inizio i segnali, che definiscano percorsi di reinserimento sociale individuale e valorizzino le possibilità emancipative della persone, quindi il tema dell’inserimento lavorativo. Quarto la definizione di strategie che rendano più facile e rapido l’accesso ai servizi specifici generalisti anche attraverso le Case della Salute; quinto il disegno della rete residenziale psichiatrica sanitaria, attraverso la revisione dei requisiti di accreditamento, delle tariffe e la definizione del fabbisogno; sesto il completamento delle strategie socio sanitarie attraverso la definizione dei requisiti autorizzativi delle strutture, come le comunità alloggio, e la puntualizzazione sul funzionamento delle unità di valutazione multidisciplinari.
Nel riportare questi punti la sensazione che ho io, e che condivido con voi in conclusione di questo discorso, è di una visione sufficiente dal punto di vista della funzionalità sanitaria. Ma al tempo stesso occorre avere coscienza che queste cose non bastano, se non affiancate alla capacità di coinvolgere la società, a rilanciare la relazione col volontariato, a pensare modalità anche di assistenza integrata, modalità che non siano solo acceso/spento ma che sappiano mettere in campo una gradualità e una flessibilità molto maggiore di quella sperimentata finora.
La chiusura dei manicomi infatti che cosa ci insegna? Che non si possono ridurre queste problematiche a ricoverato/non ricoverato, assistito/non assistito. C’è invece una complessità, una particolarità, un bisogno di arrivare a cure che siano personali, individuali, di arrivare a dare delle risposte che siano anche flessibili; e in questa flessibilità io non credo che il sistema sanitario possa farsi carico di tutto. Deve fare il suo mestiere, e questo dobbiamo difenderlo; però c’è bisogno di un progetto di coinvolgimento nuovo dei corpi sociali che in questa fase sono stati vissuti, secondo me, soltanto come ausiliari e non come centrali. Se pensiamo di costruire un tessuto che sia all’altezza delle sfide che abbiamo provato a tratteggiare, dobbiamo ripartire da noi politici (e credo che ognuno di noi debba fare un esame di coscienza) e smettere di delegare agli esperti del settore la visione ma essere coscienti che occorre definire il punto di vista di una intera società. Il discorso sarebbe molto ampio, perché se non riusciamo a ragionare insieme su una visione di società che minimizzi il disagio mentale al suo interno, saremo sempre all’inseguimento di un buco da colmare, una rincorsa impossibile perché le risorse non sarebbero mai sufficienti.
Anch’io penso, come Gianna Serra, che il rapimento di Aldo Moro alla fine degli anni ’70 segnò l’interruzione di una stagione di riforme. Forse non è un caso che, quando chiedete ad un diciottenne di oggi chi è il suo cantautore preferito, capita sovente che vi sentiate rispondere De Andrè o Guccini o De Gregori o Vasco Rossi e così via. Il mondo sembra essersi fermato, veniamo da un periodo di totale immobilità, politica anzitutto perché nei venti anni che abbiamo alle spalle l’Italia si è fermata ma non soltanto politica. Dopo il ’78, gli anni di piombo, tangentopoli e poi il ventennio che ne è seguito: insomma, sono 30 anni in cui siamo stati fermi. Ora bisogna ripartire, rimettere nuova linfa dappertutto. E in questo dappertutto è compresa anche la nostra Regione che ha certamente tanti meriti, ma per la quale bisogna pensare ad un nuovo impulso se vogliamo che continui ad essere, come ci viene richiesto, l’avanguardia in questo processo. Grazie.