Testo del mio articolo pubblicato sull’ultimo numero de “Il Mosaico”, che potete leggere per intero qui.
In una fase drammatica per l’Italia e a fronte di una ormai conclamata inadeguatezza della destra al governo, resta alta una certa diffidenza da parte degli elettori nei confronti del PD, che fatica ad intercettare l’emorragia di consensi in uscita da PDL e Lega.
Nel chiedersi perché, spesso assistiamo ad un dibattito in cui ognuno cerca di tirare la coperta dalla propria parte. Per alcuni il tema è: partito leggero o partito pesante; c’è chi incolpa la possibile alleanza con Casini e chi quella con Vendola e Di Pietro, chi punta sul ricambio generazionale e chi difende l’esperienza, chi vede il PD troppo a sinistra e chi non abbastanza, e così via.
Si rischia così di dimenticare che la vocazione del PD è intrinsecamente plurale ed orientata al futuro. O il PD risulterà davvero riformista e plurale oppure sarà percepito come una forza conservatrice e divisa. Essere riformista e plurale non è però questione da definire in qualche assemblea: va conquistato sul campo giorno per giorno, coi fatti. Per questo è un bene quando ci si concentra e si discute di idee e progetti, ed è un peccato quando si perdono buone occasioni per fare passi avanti. Un esempio di occasione (finora) mancata è quella dei ticket sanitari regionali dell’Emilia Romagna.
Va certo ricordato che è stato il governo nazionale ad introdurre i ticket sulla sanità, in forma bruta ed uguale per tutti, e del governo Berlusconi non si può che dire tutto il male possibile. E va ricordato che la Regione Emilia Romagna ha meritoriamente rifiutato di applicare i ticket governativi impegnandosi a renderli più equi, per questo introducendo scaglioni basati su fasce di reddito. Perfetto, se non fosse per un aspetto che è stato purtroppo trascurato: si è preso il reddito familiare complessivo come riferimento.
Per capirci, è un po’ come se per entrare a teatro ci fosse un cartello all’ingresso che avvisa: biglietto singolo 10 euro, sconto per famiglie 15 euro (a testa!). Questo è infatti l’effetto del provvedimento: le famiglie devono sommare i redditi di tutti i componenti, finendo quindi in una fascia di reddito più alta di chi è single oppure convivente ma non sposato, e chi ha figli è trattato esattamente come chi non ne ha. Sulla base di questo reddito ognuno dei membri della famiglia deve pagare un ticket più alto: una cosa senza alcun senso.
Esaminiamo attenuanti ed obiezioni. Si è citato come riferimento un precedente legislativo del 1993, ma la legge 537/1993 era un collegatoomnibus alla finanziaria dell’epoca e non una legge quadro in campo sanitario; poi è vero che nel comma 16 dell’articolo 8 per determinare una quota di esenzione si usava il reddito complessivo familiare, ma nello stesso comma era presente anche una gradualità per tener conto di coniuge o figli a carico; infine, è proprio dagli sbagli del passato che dovremmo liberarci, dunque attenuante respinta.
Si è poi detto che l’ideale sarebbe stato utilizzare l’ISEE, ma che era una cosa complicata e che avrebbe richiesto tempo (e denaro), dunque si è rimandata la sua eventuale adozione ad un momento successivo. Condivido l’osservazione a tal punto che credo che non sia la scelta migliore neanche in un secondo tempo. L’ISEE è una prospettiva di equità importante perché tiene insieme reddito, patrimonio e carico familiare: va affinato, semplificato, verificato (le forme di elusione della parte patrimoniale sono purtroppo agevoli e diffuse) ed utilizzato ogni volta che la contribuzione riguardi le famiglie. Ma nel caso delle prestazioni sanitarie le prestazioni riguardano i singoli cittadini!
Questo passaggio è fondamentale, per due motivi. Primo, è chiaro il limite dell’ISEE quando il contributo riguarda più di un componente della famiglia e non il nucleo familiare nel suo insieme: altrimenti perché nei nidi ci sarebbe lo sconto sul secondo figlio? Secondo, nello specifico sanitario i ticket sono anche un modo per promuovere l’appropriatezza (si ricordi che le esenzioni per patologie sono fatte salve) e sganciare i ticket da una misura “a persona” vanifica quest’obiettivo o addirittura produce l’effetto contrario.
La domanda centrale resta questa: non bastava definire gli scaglioni sul reddito pro-capite? Siamo ancora in tempo: non si può cambiare e fare così? Nelle settimane passate, insieme a diverse altre persone ho promosso un appello che trovate su pdplurale.blogspot.org, e rinnovo in queste righe l’invito alla Regione. Credo davvero che sia un caso in cui il reddito pro-capite (reddito familiare diviso numero di componenti) sia la miglior soluzione: nessun aumento della complicazione, massima equità, un segnale importante che metterebbe a tacere ogni tipo di contestazione. O no?
Nel punto di domanda finale c’è in realtà la ragione della mia preoccupazione. Che emerge non solo dalla scelta fatta, ma anche dalle risposte ufficiali improntate alla prudente promessa di studiare miglioramenti “a partire dall’ISEE” e anzitutto per “le famiglie numerose e più fragili”. Ma qui c’è un problema di equità che riguarda tutte le famiglie, ovvero tutti i cittadini tranne i single senza figli, e sarebbe davvero opportuno maggiore coraggio. Non è detto che il reddito pro-capite (quoziente familiare) vada bene in tutti i casi, ma se c’è un caso in cui è senz’altro equo ed opportuno è quello dei ticket sanitari. Non ho trovato finora nessuno a cui ho proposto questo ragionamento che mi ponesse obiezioni, e sarei grato di conoscere le motivazioni di chi non fosse d’accordo. E se nessuno ha obiezioni, allora perché tanti tentennamenti? Difficile capire cosa e chi stia frenando, ed è tornando alle fatiche del PD di cui dicevo all’inizio che sollecito il mio partito e la Regione Emilia Romagna ad avere coraggio.