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La povertà più grande è nei nostri cuori

La povertà più grande non è nelle tasche, ma nel cuore e nella mente delle persone. Siamo poveri non tanto e non solo per la disoccupazione, il precariato, le difficoltà economiche delle famiglie: siamo poveri quando perdiamo la nostra anima solidale, intraprendente e giusta.
Non sono parole mie: le sto prendendo da una lettera di alcune associazioni. In questi giorni (ma per la precisione dovrei dire soprattutto in queste notti) sto riguardando testi vari pervenuti nelle settimane scorse, contributi e suggerimenti al programma elettorale di Merola. E tra idee progettuali, numeri e scenari, proposte concrete e affermazioni di principio, ecco spuntare un concetto che ci ricorda come il cambiamento più grande cui siamo chiamati è dentro di noi. Perché certamente dobbiamo darci da fare per promuovere l’occupazione e la stabilità del lavoro, e per aiutare le famiglie in difficoltà: ma c’è di più.
Per questo trovo bella questa sottolineatura sulla povertà. Mi fa venire in mente i racconti dei nostri nonni, storie terribili della loro vita durante la guerra. Quando noi che li ascoltavamo tiravamo le somme dicendo loro “allora eravate poveri” la risposta era sempre “no, c’era chi stava peggio di noi”, perché c’era in loro un grande senso della misura e nessuna voglia di autocommiserazione. Mi fa venire in mente la dignità orgogliosa e il senso di decoro di persone poverissime che ho avuto la fortuna di conoscere in paesi molto lontani, quelli dove vai per aiutare e torni capendo che in verità sei tu quello che è stato aiutato. E mi fa venire in mente le beatitudini evangeliche, naturalmente.
Penso a tutto questo facendo un respiro profondo, mentre metto a fuoco che è un punto di vista talmente assente dalle cronache quotidiane da sembrare quasi alieno: proprio per questo ce n’è un grande bisogno.
Già, le cronache quotidiane. Storie di catastrofi e di meschinità, di disastri nucleari e di imboscate parlamentari, di popoli che combattono per la democrazia e di gente che ce l’ha ma sembra che non sappia che farsene, di costituzioni calpestate senza che se ne colga la gravità e di piccoli veleni pre-elettorali gonfiati a dismisura, di popolazioni migranti e di cervelli in fuga a volte anche dal corpo che li ospita. Dalle cronache giapponesi a quelle libiche, dalle sceneggiate lampedusane a quelle parlamentari, dai cambiamenti planetari alla piccola cronaca locale, c’è grande abbondanza di personaggi che ritengono di aver capito tutto, e la terribile sensazione che il bandolo della matassa sfugga ai più.
Manca la memoria, la coerenza, il rigore, l’umiltà, il senso della misura. Tutto è opinabile, mutevole, giustificabile, l’incertezza regna sovrana. In questa melassa scompare perfino la scienza, perché anche le idiozie sembrano credibili se hanno il marchio dell’ufficialità. Volano i colpi bassi, in un festival di pagliuzze e di travi viste però sempre nell’occhio degli altri. Si perdono le proporzioni, in un gioco di specchi in cui un serial killer può apparire un innocente perseguitato ma poi basta un’esitazione per inchiodare qualcun altro sulla croce.
Risultati? In Libia c’è la no-fly zone. In Giappone, dalle parti di Fukushima, si sta stabilendo una no-life zone. In Italia vogliono creare una no-law zone dalle parti di Arcore (ma non solo) ed una fora-dai-ball zone più verso l’esterno. A Bologna c’è chi si sta impegnando per creare una no-fair-play zone: vediamo di evitarlo, potrebbe essere il nostro piccolo contributo per una politica migliore.
Ma il primo contributo che ognuno di noi è chiamato a dare è anzitutto nel suo cuore. Anni fa, in un momento di fatica e di dubbi, una persona amica cui chiesi un consiglio sul da farsi mi disse semplicemente: “Ricordati chi sei”. Fu un grande consiglio, che resta più che valido. Perché la prima povertà da combattere è quella del nostro cuore.
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